di Davide PASSONI
La scorsa settimana i dati presentati sul mercato dell’auto in Italia nel mese di agosto hanno fatto tremare le vene ai polsi a più di un addetto del settore: poco più di 56mila immatricolazioni con un calo del 20% rispetto ad agosto 2011. Cifre che riportano ai volumi di quasi 50 anni fa, del 1964.
Per capire quanto questi numeri impattino sulla filiera dell’auto che, in Italia, è un settore vitale per l’economia ed è fatto principalmente da piccole e medie imprese, questa settimana Infoiva ascolterà alcuni degli attori principali della filiera. Partiamo da Anfia, l’Associazione Nazionale Filiera Industria Automobilistica, forse il termometro più attendibile per misurare la febbre del settore. Ecco che cosa ci ha raccontato il presidente Roberto Vavassori.
Che cosa c’è oltre i numeri freddi del mercato? Dove soffre maggiormente oggi la filiera dell’auto italiana e perché?
Ci sono due aspetti molto preoccupanti, di cui si vede il primo ma il secondo un po’ meno. Il primo è che esiste in Italia una domanda di veicoli molto bassa; il 2012 chiuderà con 1 milione e 400mila autovetture vendute, anche se bisogna considerare che parte del calo è strutturale e non congiunturale: un calo dovuto a un cambio culturale nel rapporto con l’auto che ne ha fatto calare l’appeal, non solo in Italia. Pensi che qualche anno fa in Giappone l’auto era al 6° posto nella classifica dei beni più desiderati e in Germania al 2°: l’anno scorso è scesa rispettivamente al 17° e 23° posto.
E il secondo?
Dietro al calo della domanda c’è anche il fatto che in Italia produrremo poco più di 400mila autovetture quest’anno, un numero che era la produzione della sola Mirafiori degli anni d’oro. Siamo a 1/5 della Spagna, a 1/4 della Francia e a un 1/12 della Germania. La nostra filiera dell’auto è in pericolosissima apnea, un settore che per la componentistica nel 2011 ha esportato per oltre 19 miliardi di euro mentre ora la base industriale sta venendo clamorosamente a mancare.
Mentre in Germania…
In Germania per il 2012 è prevista una produzione di 5 milioni e 700mila autovetture e le case stanno lavorando con player di livello assoluto come Bosch e Continental, per esempio, per sviluppare modelli e tecnologie del futuro. Ora come ora non abbiamo una base produttiva forte in Italia e non si percepisce il fatto che dietro al calo della domanda – il quale, per inciso, riguarda per l’70% veicoli esteri – abbiamo un settore industriale che sta scomparendo.
E quindi?
Drogare il mercato finale non serve, in Italia abbiamo 600 auto ogni 1000 persone e il nostro è un mercato di pura sostituzione, non possiamo aspettarci centinaia di migliaia di auto nuove ogni anno sulle strade. Quello italiano è un mercato che va seguito e sostenuto, visto che siamo l’unico Paese industrializzato con un solo costruttore di veicoli. Dobbiamo tornare a essere un Paese “normale”: come possiamo produrre meno auto di Iran e Thailandia? Siamo il secondo Paese manifatturiero in Europa, il sesto industrializzato al mondo e stiamo buttando via un settore trainante per l’intera economia.
Quanto soffre la filiera dell’auto italiana la difficoltà di un grande player come Fiat? Come evitare che la difficoltà di un “grande” si scarichi sui “piccoli”?
In realtà questa difficoltà si è già scaricata in maniera pesantissima. Non siamo stati capaci di fare sistema, non possiamo andare avanti in ordine sparso: ci vuole la convinzione sistemica che dobbiamo invertire la rotta. Abbiamo tutti i mezzi per farlo, siamo più produttivi della Baviera, numeri alla mano, un nostro metalmeccanico ne vale 3 francesi per specializzazione e produttività, ma negli ultimi 40 anni non abbiamo fatto programmazione e pianificazione industriale e continuiamo tuttora a non farne.
Com’è l’umore dei vostri associati? Che richieste o segnalazioni vi arrivano “dal basso”?
Tutti hanno ancora voglia di fare, ma incontrano difficoltà: dall’accesso al credito, ai costi energetici, alla burocrazia. Ostacoli che, alla lunga, rischiano di vanificare la voglia di fare impresa in Italia e la voglia di continuare a fare fatica nell’impresa di famiglia. In un quadro di difficoltà crescente, o ci si muove tutti insieme o si soccombe.
Tornando alla Germania… Lì l’auto continua a tirare. Merito anche di politiche industriali e sindacali che, negli anni pre-crisi, hanno ben “seminato”. La crisi non potrebbe essere l’occasione per intervenire anche da noi in questo senso e rivedere il sistema dalle basi?
Sì, non è impossibile, se si ha voglia di fare. Tenga conto che quando sento gli industriali tedeschi, ben pochi sono contenti del sistema di cogestione attuale, segnale che quel sistema non è la panacea per i mali del settore.
Dove sta il segreto, allora?
La differenza tra noi e la Germania è che i tedeschi riescono a pianificare e fare sistema molto meglio di noi. Pensi che con i clienti tedeschi oggi le nostre imprese chiudono contratti con scadenza 2017-2018. A differenza della Germania, ci siamo avviluppati in una spirale negativa, mentre loro hanno la capacità, anno dopo anno, di pianificare e investire. In questo senso sono stato contento che Lamborghini sia stata acquistata dal gruppo Audi, perché così ha avuto i fondi necessari per fare gli investimenti che le servivano.
Va bene la crisi, va bene l’euro boccheggiante, ma leggere di un mercato ai livelli del 1964 significa che gli italiani non ne hanno più da spendere. Che fare?
Spingere la leva dell’export; politiche sociali e fiscali che aiutino imprese e lavoratori; puntare sui prodotti che sappiamo fare bene e sul loro export; dare più ossigeno alle aziende. Quando leggo che in Spagna vengono stanziati dal governo milioni di finanziamenti a tasso 0 per 10 anni alle Pmi che fanno ricerca e sviluppo, mi viene da pensare. Per non parlare della Francia, il cui governo ha varato misure straordinarie a sostegno dell’industria dell’auto mettendosi contro ai costruttori stessi.
Che cosa chiede Anfia al governo per sostenere un settore vitale come il vostro per l’economia italiana?
In primo luogo di aumentare l’output delle auto prodotte in Italia: i nostri associati chiedono volumi. Noi li stiamo aiutando a internazionalizzarsi, perché ormai l’Italia non basta più come mercato e anche l’Europa è quasi satura: per cui mettiamo a disposizione le esperienze di grossi player come Brembo e altri, già ben posizionati su diversi mercati mondiali, che si condividono esperienze, know how, strategie con i colleghi più piccoli per aiutarli.
Guardare avanti sempre, insomma…
Io sono un ottimista convinto, ma bisogna invertire la tendenza, altrimenti rischiamo davvero grosso. Sui mercati odierni, se non si ha la capacità di reagire agli eventi e di controllarli, si rischia di scomparire. Prendiamo esempio dal mercato americano, passato in pochi anni da un -50% ai livelli precrisi attuali, senza piangersi addosso ma adottando politiche industriali serie. Tornando alla Germania, pensa che la sua crescita di questi ultimi 5 anni sia dovuta all’industria? No, per i 2/3 è cresciuta grazie alle infrastrutture e agli investimenti nel settore pubblico. In Italia, invece, ci troviamo a tagliare nel pubblico e a non investire nelle infrastrutture, che sono un volano di ripresa economica. Le imprese tedesche si finanziano a tassi vicini allo 0%, vanno bene nei loro mercati di export e così
guadagnano vantaggio competitivo per cui non hanno alcun interesse a risolvere questa crisi, almeno nel breve periodo. Per cui il mio appello è: non molliamo, prendiamo in mano la situazione, mettiamo da parte i campanilismi, rimbocchiamoci le mani e lavoriamo insieme a politiche industriali serie per il Paese.