Il periodo di comporto è un fattore assolutamente determinante per la conservazione del posto di lavoro. Le statistiche di quest’ultimo anno di lavoro (ma si può estendere il tutto all’ultimo biennio), hanno evidenziato un netto incremento delle malattie dei lavoratori. A tal punto che correre il rischio di perdere il posto di lavoro per il superamento del periodo di comporto non è certo una rarità oggi giorno. Ma proprio per il particolare momento storico che viviamo o che abbiamo vissuto da due anni a questa parte, occorre fare un distinguo tra giornate di assenza per malattia.
Cos’è il periodo di comporto nei contatti di lavoro
Un lavoratore dipendente ha pieno diritto ad assentarsi per malattia. Un diritto sancito costituzionalmente. Ma non può certo fare ciò che vuole e soprattutto, il periodo di assenza per malattia non può certo protrarsi nel tempo e per troppo tempo. Proprio questi limiti sono rinchiusi tutti nella definizione di periodo di comporto.
Per periodo di comporto infatti si fa riferimento al totale delle assenze per malattia ammissibili in un determinato arco temporale. In pratica, è il numero massimo di giornate di assenza dal lavoro effettuate da un lavoratore dipendente. Sono i CCNL, cioè i contratti collettivi di lavoro, che stabiliscono questo lasso di tempo.
Perdere il posto di lavoro per superamento del periodo di comporto
Ed è un periodo focale per non rischiare di perdere il proprio lavoro. Infatti il periodo di comporto è quel numero di assenze che una volta superato mette il lavoratore nella condizione di poter essere licenziato. In questo caso il licenziamento sopraggiunge per “superamento del periodo di comporto “. Ed è assolutamente una giusta causa di licenziamento.
L’aspettativa non retribuita amplia le possibilità
Una volta terminato il periodo di comporto, il lavoratore, per la stragrande maggioranza dei contratti collettivi di lavoro, può chiedere al datore di lavoro un ulteriore periodo di aspettativa non retribuita. Come dicevamo, questo nella stragrande maggioranza dei rapporti di lavoro. Infatti salvo casi previsti dal CCNL, la soluzione a chi si assenta ancora per malattia è proprio l’aspettativa non retribuita. Un periodo in cui il lavoratore resta assente, e resta giustificato. Anche se non percepisce stipendio. Si tratta di una soluzione per non perdere il diritto alla conservazione del posto di lavoro. Serve però l’accordo del datore di lavoro, che per necessità aziendali deve provvedere alla sostituzione del lavoratore in aspettativa, con una nuova assunzione. Va ricordato che al contrario dei periodi di malattia, quelli di aspettativa non contano dal punto di vista degli scatti di anzianità.
Il Covid ha aumentato le malattie, ma per il comporto i Giudici la pensano diversamente
Come dicevamo, le malattie durante gli ultimi due anni sono aumentate a dismisura. Sicuramente ha inciso il Covid. La pandemia, tra casi di positività e casi di contatto stretto con positivi sui posti di lavoro, ha sicuramente prodotto un aumento esponenziale di queste assenze. E per questo motivo che il dubbio riguardo al periodo di comporto per le assenze per malattia da Covid, riguarda una moltitudine di lavoratori. Un dubbio che ha provveduto a fugare un Tribunale.
La sentenza che crea il precedente
Come si legge sul sito “bollettinoadapt.it”, lo scorso 5 gennaio, il Tribunale di Asti ha dato ragione ad un lavoratore (una lavoratrice per l’esattezza), che ha prodotto ricorso conto il licenziamento per superamento del periodo di comporto irrogato dal suo datore di lavoro. Si trattava di una lavoratrice di una azienda operante nel settore Terziario che aveva subito il provvedimento per aver superato il periodo di comporto. In genere sono 6 mesi in un anno solare le assenze per malattia del periodo di comporto. Nel caso specifico della lavoratrice licenziata, il periodo di comporto era stato superato per via di assenze dovute al fatto che era stata a contatto con una collega risultata positiva al Covid-19. Tra quarantena preventiva e successiva positività, le giornate di malattia avevano superato, in collegamento con altre per diverse patologie, il relativo periodo di comporto.
Le motivazioni che di fatto escludono il Covid dal periodo di comporto
La motivazione per cui gli ermellini hanno dato ragione alla ricorrente è lapalissiana nel mettere in luce il fatto che le assenze per Covid non dovrebbero far parte del computo delle assenze del periodo di comporto. In totale la lavoratrice era stata assente per 183 giorni nell’anno solare cioè oltre il periodo di conservazione del posto di lavoro e il periodo di comporto.
Le normative straordinarie del governo a sostegno della tesi dei Giudici
Secondo i Giudici e come si legge sul sito prima citato, “dal numero totale dei giorni di malattia dovevano essere decurtati i 10 giorni di quarantena per contatto con una collega positiva al Covid”. In questo caso infatti gli ermellini hanno stabilito che, essendo il contato, nato per questioni di lavoro, più che di malattia le assenze dovevano essere giustificate da infortunio. Sempre secondo il Tribunale, anche il fatto che le assenze della lavoratrice erano giustificate da norme eccezionali varate dal governo per contenere i contagi da Covid, non potevano essere utilizzate per provvedimenti quali sono i licenziamenti per superamento del periodo di comporto.