In pensione dal 2023 con nuove misure? Si, ma quali. Domanda lecita questa, soprattutto perché pare che non ci siano tante speranze nemmeno per il 2023, di vedere una profonda riforma del sistema previdenziale. Troppe problematiche più urgenti pare abbia da affrontare il governo italiano. Rimanere ancorati anche nel 2023 alla quota 102 come unica o più o mento tale, alternativa ai vincoli Fornero, pare insufficiente.
Il sistema avrebbe bisogno di altro. Lo si evince non solo dalle proposte dei sindacati o dalle discussioni ai tavoli della politica. Lo si evince anche dalle chat social, dai forum e dai commenti dei diretti interessati, cioè i lavoratori. Ma quale sarebbe una ipotetica riforma delle pensioni che potrebbe essere considerata giusta da tutti?
Alcuni evidenti problemi del sistema pensionistico italiano
Ciò che attualmente manca al nostro sistema pensionistico è la flessibilità in uscita. Quando si parla di flessibilità si parla della possibilità da dare ai lavoratori, di scegliere quando uscire dal lavoro. Dal momento che il sistema previdenziale è contributivo e che più si lavora più si versano contributi, la scelta di andare prima in pensione prendendo meno di assegno, dovrebbe toccare al lavoratore.
Una cosa che oggi non è possibile, o almeno non lo è per tutti. Le alternative alla pensione di vecchiaia a 67 anni sono diverse, questo è vero. Ma parlare di flessibilità non è giusto. Quota 41 precoci e Ape sociale per esempio, sono misure che si rivolgono solo a determinate categorie. I disoccupati, gli invalidi e i caregivers, e nemmeno tutti dal momento che esistono per ogni categoria altri sotto requisiti. E poi i lavori gravosi, con 15 categorie per la quota 41 (dove bisogna essere anche precoci), e molte di più per l’Ape sociale (ma non tutti i lavoratori).
Quota 41 permette di uscire dal lavoro senza limiti di età, l’Ape sociale dai 63 anni. Ma se fai il barista o il falegname, entrambe le misure non sono fruibili.
La flessibilità di quota 100 e quota 102 non è certo una grande cosa
Per rispondere all’esigenza di flessibilità del sistema, i governi che si sono succeduti i questa particolare legislatura, hanno scelto la pensione per quotisti. Ma anche in questo caso, una vera flessibilità non è stata introdotta. Con la quota 100 era consentita l’uscita dai 62 anni di età. Con la quota 102 invece, dai 64 anni di età. In entrambi i casi il limite contributivo era a 38 anni. Troppi per molti lavoratori. Una flessibilità che calza a pennello solo per chi ha avuto la fortuna di avere carriere lavorative lunghe e durature, prive di interruzione e iniziate molto presto.
Per esempio, con la quota 100 un lavoratore per uscire a 62 anni esatti, avrebbe dovuto iniziare a lavorare a 24 anni di età senza più fermarsi dal momento che dei 38 anni di versamenti 35 devono essere effettivi dal lavoro come per le pensioni anticipate ordinarie con 42,10 e 41,10 anni di versamenti. Le altre vie di uscita esistenti sono ancora più limitate come perimetro e con più vincoli, tra importi minimi della pensione da raggiungere (le anticipate contributive o in genere le pensioni per contributivi puri), penalizzazioni da accettare (ricalcolo contributivo di opzione donna) e così via.
Quale sarebbe la giusta riforma delle pensioni?
Se flessibilità deve essere, questa non può che collegarsi alla pensione di vecchiaia. Infatti la normale quiescenza di vecchiaia si centra al raggiungimento dei 67 anni di età ed al contestuale completamento di una carriera contributiva minima di 20 anni. la flessibilità dovrebbe consentire di lasciare il lavoro a qualsiasi età o quasi (magari impostando il limite a 62 o 63 anni), sempre con 20 anni di versamenti.
Questo perché, se il lavoratore decide di accettare la pensione liquidata su 20 anni di carriera, dovrebbe essere libero di farlo. Conscio del fatto che se dai 62 ai 67 anni di età continuasse a lavorare, potrebbe arrivare a 25 anni di carriera e prendere di più di pensione. Sono le regole del sistema contributivo per cui più si versa più si percepisce di assegno. Ma sarebbe anche la soluzione per la pensione di quanti si trovano con perdita di lavoro e con difficoltà oggettive a trovarne un altro (a 62 anni chi perde il lavoro difficilmente per età, ne trova un altro).
E la flessibilità non dovrebbe prevedere penalizzazioni di assegno dal momento che sarebbe già tanto lo scotto da pagare interrompendo la carriera con 20 anni di contributi perdendone 5.
La pensione deve arrivare sempre una volta raggiunta una determinata carriera
E se si parla di carriera, bisogna impostare il limite oltre il quale dovrebbe essere giusto mettersi a riposo. Per esempio 40 anni potrebbero bastare. Le pensioni anticipate di oggi, prevedono soglie vicine ai 43 anni per gli uomini (42,10 per l’esattezza). Per uscire a 60 anni di età una persona dovrebbe aver iniziato a lavorare a 17 anni e poi senza interruzione per completare circa 43 anni di contributi versati. Una enormità evidente questa, che rende le pensioni anticipate non così anticipate come sembra. Infatti chi sfrutta tale misura ormai, arriva sempre più vicino ai 67 anni della pensione di vecchiaia ordinaria.
Infine, bisognerebbe consentire uscite vantaggiose per determinate attività lavorative. Lo stesso principio dell’Ape sociale o della quota 41 oggi in vigore. Ma fissando il limite contributivo a soglie più basse. Un lavoratore edile che ha iniziato tardi a lavorare o che oggi è alle prese con continue interruzioni di lavoro, dovrebbe poter uscire a prescindere dalla carriera. Anche perché ci sono lavori che non hanno nella continuità un loro fattore. Senza considerare ciò che sta accadendo oggi, tra crisi economiche varie da epidemie o guerre. Concedere le pensioni anticipate sarebbe un modo per limitare anche l’uso dell’assistenzialismo, perché al posto di chiedere sussidi che gravano in ugual misura sulle casse dello Stato, meglio andare sulle misure previdenziali.
E poi occorrerebbe alzare i minimi di pensione. Fissare la pensione ad una soglia minima sotto la quale non si deve scendere. Basi pensare che un pensionato con 20 anni di contributi a 67 anni spesso prende meno di un beneficiario del reddito di cittadinanza, magari più giovane e senza alcun contributo versato.