Presto si tornerà a parlare di pensioni e soprattutto di riforma delle pensioni. Scampato il pericolo di dover rivedere il tutto alla luce di un nuovo Presidente della Repubblica e magari di un nuovo governo, adesso si dovrà affrontare l’argomento.
La riconferma al Quirinale di Sergio Mattarella e la conferma in pieno del governo Draghi, vuoi anche per l’evidente attaccamento alle poltrone dei parlamentari, lascia presupporre che si arriverà a fine legislatura. Ciò significa che se davvero la riforma delle pensioni deve vedere i natali quest’anno, sia con un provvedimento ad hoc o solo con la prossima manovra di fine anno, sarà questo esecutivo ad occuparsene.
Ci eravamo lasciati all’ultimo incontro governo sindacati con le solite richieste delle parti sociali e le solite aperture del governo, pur con tutte le limitazioni del caso dovute alla necessità di assecondare le direttive UE per poter godere dei soldi del Recovery Plan.
Il punto della situazione al momento resta questo. Ma cosa c’è da aspettarsi sulle pensioni e sulla loro riforma?
La posizione dei sindacati
Le richieste dei sindacati sembrano sempre le stesse, e così ormai da anni ed anni. I sindacati chiedono la pensione flessibile per tutti e senza penalizzazioni di assegno. Una misura monstre che consentirebbe, a scelta dei diretti interessati, di lasciare il lavoro una volta arrivati a 62 anni di età ed una volta arrivati a 20 anni di contributi versati.
Sarebbe il lavoratore a scegliere in base alle sue esigenze e ai suoi fabbisogni, se accontentarsi o meno di andare in pensione prima.
Infatti se è vero che più si lavora più si prende di pensione, il lavoratore che opta per una uscita anticipata è già di per se penalizzato. Inutile quindi prevedere tagli lineari di assegno, per anno di anticipo o per ricalcolo contributivo della prestazione.
Altro punto cardine delle richieste dei rappresentanti dei lavoratori è la quota 41 per tutti.
Si tratterebbe di una autentica, nuova, pensione anticipata. Infatti senza alcun limite di età, ed anche in questo caso senza penalizzazioni, con 41 anni di contributi secondo i sindacati si dovrebbe uscire dal lavoro.
Il metodo contributivo come principio base delle nuove pensioni
Ciò che il governo potrà fare è il respingere al mittente le richieste dei sindacati. Non è immaginabile che si arrivi a dire di si a queste misure, con la UE che chiede di ridurre la spesa pubblica e di tornare alla piena attuazione della riforma Fornero.
Il governo deve mettere a terra i soldi del Pnnr del governo. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che l’esecutivo ha prodotto per sfruttare le risorse assegnate all’Italia dalla UE e dal Recovery Plan.
Occorre fare i compiti a casa, e farli bene per ottenere quello che all’Italia è stato assegnato, soprattutto con lo sguardo attento dei Paesi Frugali che già in passato hanno contestato i troppi aiuti all’Italia.
In aiuto a questa necessità, senza dubbio il metodo contributivo. Non c’è metodo di calcolo delle pensioni che non sia più virtuoso del sistema contributivo in fatto di contenimento della spesa pubblica. Ed è lì che il governo, come scrivono anche sul quotidiano “Il Giornale”, il governo andrà a parare.
Cosa intende fare il governo sulle pensioni
L’esecutivo si prepara quindi ad una nuova serie di incontri coi sindacati. Incontri dove c’è da giurarci, le posizioni resteranno quelle prima descritte. L’anno corrente segna il primo anno del post quota 100 e l’unico anno di funzionamento della quota 102.
E si parla di una nuova riforma a partire dal 2023. L’idea del governo, che poi è quella che da anni ha già intrapreso il sistema pensioni nostrano, è quello del contributivo. Non ci sono proposte, idee o misure che proposte da fonti vicine al governo, non prevedono penalizzazioni di assegno. E se i tagli lineari sono poco popolari, allora meglio riversarsi sull’altra grande soluzione per rendere sostenibile la riforma e le eventuali misure. Il metodo contributivo per calcolare gli assegni.
Come già detto infatti, la UE da tempo chiede all’Italia questa soluzione, o meglio una soluzione low cost che per i vertici europei è la riproposizione fedele della riforma Fornero, senza necessariamente trovare scorciatoie. SI arriva per esempio, alla soluzione della pensione flessibile con taglio lineare di assegno, che poi a conti fatti è esattamente una applicazione, celata del metodo contributivo. In questo modo i futuri pensionati, a fronte di una uscita anticipata, subiranno almeno 3 livelli di penalizzazione.
I tre punti cardine di un autentico salasso per i futuri pensionati
Il primo è la penalizzazione del 3% per anno di anticipo. Ipotizzando una misura che permette di uscire a 62 anni, significa il 15% in meno di pensione.
E se la pensione teoricamente spettante è pari a 1000 euro, significa subito un taglio di 150 euro, con assegno che passa ad 850 euro. Ma c’è da fare i conti con il taglio derivante dai peggiori coefficienti di trasformazione applicati alla pensione per le uscite anticipate. Come è noto infatti, prima si esce dal lavoro più penalizzanti sono i coefficienti di trasformazione.
Questi parametri sono quelli per cui si passa il montante dei contributi e tra 62 e 67 anni c’è quasi un punto. Significa perdere un’altra fetta di pensione, stavolta variabile in base agli importi dei contributi. Infine, c’è da fare i conti con i 5 anni in meno di contributi versati, cioè quelli che il lavoratore avrebbe versato se fosse rimasto in servizio fino ai 67 anni.