La normativa italiana prevede che dopo il matrimonio i coniugi abbiano come regime patrimoniale quello della comunione del beni, fatta salva la possibilità, al momento della celebrazione del matrimonio, di optare per la separazione dei beni, oppure di scegliere successivamente con convenzione di aderire al regime di separazione dei beni. Molti erroneamente ritengono che tutti i beni acquisiti dopo il matrimonio rientrino nel regime di comunione dei beni, in realtà non è così, sono infatti esclusi molti beni. Ecco una disamina sul regime dei beni acquisiti dopo il matrimonio.
Beni acquisiti dopo il matrimonio: quando cadono in comunione
La comunione dei beni, come regime ordinario susseguente al matrimonio, è previsto dalla legge 151 del 1975 che ha in un certo senso rivoluzionato il diritto di famiglia, andando ad adeguare la normativa a quella che era ormai nuova considerazione di questo istituto da sempre considerato alla base di ogni società civile. Implica che normalmente i beni acquisiti dai coniugi dopo il matrimonio ricadono in comunione dei beni, cioè appartengono a entrambi. Questo principio ha riflessi su tutti gli atti dispositivi su tali beni che devono essere concordati e sottoscritti dalle parti e ricade eventualmente anche su una successiva divisione, ad esempio nel caso in cui i coniugi dovessero decidere separarsi e in seguito di sciogliere il vincolo matrimoniale.
La comunione dei beni è quindi automatica, cioè al momento dell’acquisto non occorre specificare che quel determinato bene si vuole far ricadere in comunione. Vi sono però dei beni che per la loro natura non ricadono nella comunione dei beni, ma restano nella proprietà esclusiva di chi li ha acquisiti. Rientrano quindi nel patrimonio comune la casa acquistata successivamente al matrimonio, questo anche se di fatto è solo un coniuge a pagarla, il denaro presente su conto corrente o altre forme di risparmio, i debiti, sia se contratti congiuntamente che separatamente.
Beni acquisiti dopo il matrimonio che non ricadono nella comunione
I beni che restano in separazione dei beni nonostante il regime della coppia sia quello della comunione, sono quelli indicati negli articoli 177, 178 e 179 del Codice Civile. Si tratta di:
- beni che appartenevano a ciascun coniuge prima del matrimonio (evidentemente perché erano stati acquisiti prima del matrimonio stesso;
- beni ricevuti da ciascun coniuge dopo il matrimonio a titolo di successione o donazione (tali beni si considerano personali);
- somme che ricadono tra i risarcimenti danni, ad esempio nel caso di sinistro stradale da cui derivano lesioni personali, se si ottiene il risarcimento danni, questo appartiene al solo coniuge che effettivamente ha subito il sinistro;
- pensione di invalidità;
- beni ad uso strettamente personale o professionale (il computer ad esempio e in molti casi l’auto);
- diritti di proprietà acquistati con denaro derivante dalla vendita di uno dei beni prima visti. Ad esempio se un coniuge riceve in eredità un appartamento e decide di venderlo per acquistare con quel denaro un’altra casa, evidentemente resterà di proprietà esclusiva del soggetto che aveva ereditato e questo anche nel caso in cui la nuova casa sia destinata alla residenza familiare.
Il coniuge eredita i beni in regime di separazione
Fatto questo elenco, è necessario fare qualche altra precisazione. In primo luogo il fatto che i beni non ricadano in comunione non vuol dire che in caso di morte del proprietario “esclusivo”, l’altro coniuge non erediti, anzi. In caso di decesso del proprietario esclusivo dei beni, sebbene questi, ad esempio la casa, siano di proprietà esclusiva di uno solo dei due coniugi, comunque l’altro coniuge eredita (insieme ai figli se vi sono).
Un altro caso emblematico si ha nel momento del divorzio. Ad esempio Tizio riceve una casa in eredità dal padre Caio, nella stessa va a vivere con la moglie con cui è in comunione dei beni. Questa casa resta di sua esclusiva proprietà, ma in caso di divorzio quella stessa casa potrà essere assegnata alla moglie se con lei sono collocati i figli, una volta che questi sono diventati economicamente indipendenti o comunque hanno lasciato la casa, perché si sono trasferiti per lavoro in un’altra città, la ex coniuge deve lasciare la casa e il diritto di proprietà precedente si espande nuovamente, può essere esercitato nuovamente dal legittimo proprietario che era stato allontanato.
La doppia natura del risarcimento danni
Un’altra nota deve essere fatta per il risarcimento danni: la prima differenza da fare è tra risarcimento del danno extracontrattuale e contrattuale. Il primo si ha quando tra i soggetti (danneggiante e danneggiato) non c’è alcun vincolo, ad esempio in caso di sinistro stradale: il risarcimento è personale e non ricade nella comunione dei beni. Il secondo caso è quello del danno contrattuale, quindi quando due parti hanno un accordo e da quello nasce il diritto al risarcimento, che potrebbe ricadere in comunione. Con degli esempi risulta più semplice.
Se il dentista sbaglia un intervento e danneggia il cliente, la responsabilità è contrattuale, ma il risarcimento è personale e questo perché la prestazione è strettamente personale e in favore esclusivo del singolo coniuge. Nel caso di un commercialista che nello svolgere il suo operato compie degli errori che ricadono economicamente sul cliente e sulla sua famiglia, siamo nel campo del risarcimento danno contrattuale, ma in questo caso il risarcimento cade in comunione dei beni.
La natura del risarcimento da sinistro al coniuge superstite
Un altro caso è quello del risarcimento da parte di un’assicurazione in favore del coniuge, si faccia il caso di un soggetto che purtroppo muore in un sinistro, il coniuge può chiedere il risarcimento del danno, ma non perché è in comunione dei beni, ma semplicemente perché eredita il risarcimento al defunto (jure hereditatis), inoltre può chiedere un risarcimento danni jure proprio per il patema d’animo che lui ha subito dalla perdita. La Corte di Cassazione ha stabilito nei confronti di alcune categorie di congiunti, tra cui il coniuge, il convivente more uxorio e i figli, questo patema d’animo si presume, quindi non c’è neanche bisogno di provarlo, Corte di Cassazione sentenza 23725 del 16 settembre 2008. Mentre se i coniugi sono separati il giudice deve valutare caso per caso non potendo presumersi tale patema d’animo ( Corte di Cassazione n°10393 del 2002).