La riduzione dello stipendo, il ricorso alla cassa integrazione e i periodi di disoccupazione possono ridurre i contributi previdenziali. Come conseguenza, ne potrebbe risentire l’importo della futura pensione, ma è possibile neutralizzare i contributi svantaggiosi. Focus, dunque, sui contributi, l’elemento principale nel calcolo della pensione. Alcuni periodi contributivi infatti sarebbe meglio escluderli dal calcolo della pensione, come ad esemio i contributi figurativi.
Chi rischia l’assegno di pensione ridotto per i ‘contributi dannosi’?
La neutralizzazione dei contributi dannosi per la pensione futura riguarda, in primo luogo, i lavoratori che rientrano nel sistema previdenziale retributivo. La medesima situazione, invece, non si verifica se il lavoratore ricade nel mecacnismo previdenziale contributivo, con inizio di contribuzione a partire dal 1° gennaio 1996. La motivazione risiede proprio nel calcolo della pensione. Per il contribuente del regime retributivo, infatti, incidono principalmente gli stipendi percepiti negli ultimi cinque o dieci anni di lavoro.
Futura pensione in diminuzione per chi perde il lavoro prima dell’uscita
Ciò equivale a dire che, negli anni precedenti l’uscita da lavoro per la pensione, i contribuenti del sistema retributivo, in corrispondenza di stipendi più bassi, si vedrebbero calcolata la futura pensione sulla base di salari in diminuzione, anziché in aumento. Questa relazione è tanto vera quanto più penalizzante risulta per i lavoratori che perdono il proprio lavoro e percepiscono l’assegno di disoccupazione. A fronte di retribuzioni ridotte corrisponderà una pensione futura in diminuzione.
Contributi dannosi per il calcolo della pensione futura: i riferimenti normativi
I passaggi normativi rigurdanti la disciplina della neutralizzazione dei contributi “dannosi” ha radici molto indietro nel tempo. Inizialmente la questione è stata affrontata dall’articolo 37 del decreto del Presidente della Repubblica numero 818 del 26 aprile 1957. Infatti, nell’articolo si fa riferimento ai periodi da escludere in modo che non concorrano al calcolo della pensione nel quinquennio di riferimento, ovvero i periodi di:
- assenza facoltativa dal lavoro;
- lavoro subordinato all’estero;
- servizio militare;
- malatttia.
La sterilizzazione dei contributi penalizzanti
I successivi provvedimenti legislativi con la legge numero 297 del 1982 e il decreto legislatio numero 503 del 1992, nonché gli interventi della Corte costituzionale, sono andati nella direzione del riconoscere ai lavoratori, anche autonomi, la facoltà di sterilizzare gli eventuali contributi penalizzanti. In tal senso, è possibile non farli rientrere nel calcolo della futura pensione purché vengano accreditati una volta maturato il requisito contributivo richiesto per la pensione anticipata o per quella di vecchiaia.
Quali contributi si possono neutralizzare e in quali limiti?
Fatta la premessa del momento in cui si può attivare la sterilizzazione dei contributi penalizzanti, la legge riconoscere il meccanismo per un massimo di 260 settimane di contributi. Il limite fa riferimento ai periodi:
- di rioccupazione con uno stipendio inferiore a qello che si percepita prima;
- alla disoccupazione indennizzata.
Non vi sono limiti, invece, per la neutralizzazione dei seguenti contributi:
- quelli riguardanti periodi figurativi di integrazione dello stipendio;
- i periodi di contribuzione volontaria.
Domanda di neutralizzazione dei contributi penalizzanti
Spetta al lavoratore l’iniziativa di fare richiesta di neutralizzazione dei contributi penalizzanti. In particolare, la richiesta deve essere presentata all’Inps nel caso in cui il lavoratore ravvisi una decurtazione della pensione. In particolare, una volta raggiunti i requisiti della pensione di vecchiaia o della pensione anticipata, l’eventuale ed ulteriore montante di contributi accreditato può essere neutralizzato se dal calcolo dell’accredito risulti un nocumento sull’assegno di pensione.
Contributi da neutralizzare: il caso della retribuzione inferiore
Sul caso dei contributi da neutralizzare a causa di una retribuzione inferiore che possa produrre un assegno di pensione decurtato, è intervenuta l’Inps con la circolare numero 133 del 1997 e con il messaggio 12002 del 2006. La circolare, che si rifà alla sentenza della Corte Costituzionale numero 264 del 1994, recita: “In base ai principi enunciati dalla Corte Costituzionale con la sentenza numero 264, l’esclusione dal calcolo della pensione dei periodi di retribuzione ridotta non necessari ai fini del perfezionamento dell’anzianità contributiva minima è finalizzata a evitare un depauperamento del trattamento pensionistico causato dallo svolgimento di un’attività lavorativa meno retribuita nell’ultimo quinquennio di lavoro”.
Il calcolo delle 260 settimane ai fini della confronto dei contributi
Ciò premesso, la circolare Inps specifica che: “La diminuzione della retribuzione deve essersi verificata nell’ultimo quinquennio di contribuzione, e cioe in coincidenza con il periodo di riferimento (le ultime 260 settimane di contribuzione) o nel corso di esso”. Al verificarsi di queste condizioni, l’applicabilità della sentenza numero 264 nel caso di cambiamento dell’attività lavorativa nell’ultimo quinquennio di contribuzione, necessita di “prendere a riferimento la retribuzione settimanale media percepita nell’anno di cessazione della precedente attività, calcolata sulla base delle retribuzioni percepite per tale attività, e metterla a confronto con la retribuzione media settimanale percepita nello stesso anno, calcolata sulla base delle retribuzioni percepite in relazione alla nuova attività lavorativa”.
Periodi da escludere dal calcolo della pensione
La circolare Inps detta, dunque, disposizioni in merito ai periodi da escludere dal computo della pensione. Infatti, come poi specificato dalla stessa Inps con il messaggio 12002 del 2006, “deve essere escluso dal computo della retribuzione pensionabile e dell’anzianità contributiva tutto il periodo di lavoro svolto a partire dal cambiamento di attività ovvero, in caso di riduzione retributiva avvenuta nell’ambito dello stesso rapporto di lavoro, tutto il periodo di lavoro svolto a partire dall’anno solare in cui è iniziata tale riduzione. In ogni caso non possono essere escluse dal computo più di 260 settimane di contribuzione”.
Contributi dannosi in caso di disoccupazione indennizzata
Sui contributi dannosi in caso di disoccupazione indennizzata è intervenuta la Corte costituzionale con la sentenza numero 82 del 2017. Nel caso di pensione retributiva non si conta il periodo di disoccupazione, se dannoso. Ovvero deve essere possibile, per il lavoratore, eslcudere i periodi in cui si sono percepiti contributi per disoccupazione.
La sentenza della Corte costituzionale sui periodi di disoccupazione
I periodi di disoccupazione andrebbero ad abbassare l’assegno pensionistico. La sentenza della Corte costituzionale ha stabilito, dunque, l’illegittimità del comma 8 dell’articolo 3, della legge 297 del 1982. Il provvedimento, infatti, non permetteva al lavoratore, che già avesse matrato il diritto alla pensione, di scorporare il periodo non lavorato coperto da disoccupazione.
Integrazione salariale ai fini della pensione nel retributivo
Non è soggetto al vincolo delle 260 settimane il caso dell’integrazione salariale. La circolare Inps numero 158 del 1996 prende in esame il lavoratore che percepisce, nell’ultimo periodo antecedente la decorrenza della pensione, il trattamento di integrazione salariale. In particolare, l’Inps stabilisce che: “La liquidazione dell’assegno pensionistico risulta determinata in misura sensibilmente più ridotta rispetto a quella che sarebbe derivata tenendo conto dei soli contributi obbligatori già versati e sufficienti, all’atto dell’ammissione all’integrazione salariale, a far conseguire il trattamento pensionistico di anzianità al raggiungimento dell’età pensionabile”.
Esclusione dei periodi di integrazione salariale
La circolare Inps disponde che “nei casi in cui nel periodo utile per il calcolo della retribuzione pensionabile, e cioè nelle ultime 260 settimane di contribuzione antecedenti la decorrenza della pensione, siano compresi periodi di contribuzione per integrazione salariale, la contribuzione per integrazione salariale non deve essere considerata a nessun effetto”. Ne consegue che le pensioni con decorrenza posteriore al 31 dicembre 1992 devono essere calcolate senza tener conto dell’integrazione salariale.
Periodi di contribuzione volontaria
Rientrano nella casistica dei contributi dannosi anche quelli versati volontariamente dei quali parla l’Inps nella circolare 127 del 2000. In particolare, il ricalcolo della pensione e, dunque, la neutralizzazione dei contributi dannosi riguarda:
- le pensioni a carico dell’assicurazione obbligatoria dei lavoratori dipendenti;
- i lavoratori autonomi per il cumulo di contribuzione.
Il versamento dei contributi volontari, effettuato nell’ultimo quinquiennio di contribuzione, deve aver comportato una riduzione della pensione maturata sulla base dei contributi versati nella vita lavorativa.