Il fenomeno delle false partite IVA non è un raro evento, anzi. Ma di una cosa si può essere certi: la legge prevede delle sanzioni talvolta pesanti.
Falsa partita IVA: perché e come?
Spesso, in Italia, si ricorre all’illegale utilizzo della partita IVA. In presenza di una situazione economica poco favorevole, può verificarsi che il committente “costringa” il collaboratore ad aprire una falsa di partita IVA. Ma perché il datore di lavoro si comporta in tal modo nonostante la pratica sia illegale?
Per un’azienda, capita di sovente che il costo del lavoro sostenuto per il dipendente sia troppo alto, spesso, ciò corrisponde a retribuzioni troppo basse. Per sopperire a tale problema, un datore di lavoro tende a ricorrere a un escamotage illecito che consente di ridurre i costi, nonostante l’utilizzo di personale qualificato. E’ questo il caso della falsa partita IVA.
Accade che il datore di lavoro non assume con regolare contratto, avvalendosi della collaborazione del lavoratore a cui richiede di aprire una partita IVA per evitare di assumerlo come lavoratore subordinato. Purtroppo, quest’ultimo viene trattato come tale, pur risultando un lavoratore autonomo che opera con partita IVA agli occhi dell’Agenzia delle Entrate.
Come già anticipato, si tratta di un metodo usato molto diffuso dalle aziende che preferiscono di gran lunga una collaborazione occasionale con apertura di partita IVA, piuttosto che regolarizzare il lavoratore nel modo più adeguato e lecito, visto che la prestazione lavorativa è spesso abituale e non sporadica. La lettura dell’articolo 2222 del Codice civile che tratta del “contratto d’opera” è sicuramente illuminante.
Come si individua una falsa partita IVA?
E’ bene sottolineare che una situazione del genere non è affatto comoda per il lavoratore, in quanto non può gestire in autonomia il proprio lavoro, quindi, è sottoposto al vincolo di subordinazione, pur non essendo tutelato con alcun diritto che spetterebbe a un dipendente (malattia, ferie, permesse retribuiti…) né di tutele contributive, in quanto il datore di lavoro nonostante utilizzi il proprio lavoratore come un dipendente, in virtù della presenza di una falsa partita IVA, non è tenuto a corrispondergli alcun contributo.
Il caso limite è quello della mono committenza: ossia quando la finta partita IVA lavora per lo stesso datore di lavoro. Al fine di evitare che ciò accada, il DL 76/2003 (art. 69/bis), chiarisce che si può parlare di presunzione di subordinazione nel caso si verifichino almeno due delle seguenti tre posizioni:
- criterio temporale: se la collaborazione di un lavoratore presso la stessa azienda dura oltre otto mesi nell’arco di due anni;
- criterio del fatturato: quando il fatturato totale del lavoratore con partita IVA sia derivante, negli ultimi due anni, dallo stesso committente o azienda per almeno l’80%;
- criterio organizzativo: se sussiste una postazione di lavoro fissa all’interno dell’azienda del lavoratore con partita IVA oggetto dell’identificazione.
Allo scopo di evitare finte dimissioni e facili licenziamenti, al fine di modificare il rapporto di lavoro dipendente in una falsa partita IVA agevolata, la legge di Bilancio ha determinato con una modifica a regime forfettario, che non è possibile operare in regime di partita IVA agevolato e fatturare all’ex datore di lavoro.
C’è da dire, che non è affatto un compito semplice “beccare” una falsa partita IVA, in quanto sono i medesimi lavoratori ad accettare le suddette condizioni di lavoro, costretti a farlo per non perdere l’occupazione. Ma è da sottolineare che una volta subentrata la presunzione di subordinazione, è necessario dimostrare l’esistenza di una prova contraria che rende il compito di mascherare un lavoro dipendente tramite l’apertura di una partita IVA da parte del collaboratore, molto arduo.
Sanzioni per falsa partita IVA: chi le subisce?
Qualora venisse accertato l’uso di una falsa partita IVA, dovrà essere dimostrato che il lavoratore sia stato costretto ad accettare tale situazione per poter lavorare, senza alcuna conseguenza per lui.
Il relativo datore di lavoro, invece, viene obbligato ad assumere il lavoratore con un contratto a progetto oppure con un contratto a tempo indeterminato. Quest’ultimo caso, si concretizza quando esiste più di un lavoratore nella stessa azienda a trovarsi nelle medesime condizioni.
In conclusione, il rischio maggiore a livello di sanzioni ricade sul datore di lavoro, mentre alcuna conseguenza colpirà il lavoratore.
Oltretutto, è fondamentale evidenziare che il contratto partirà dalla data di emissione della prima fattura. Ciò vuol dire, che il lavoratore in questione riceverà l’erogazione di tutti gli obblighi contributivi e fiscali. Nella pratica, non si tratta di una vera e propria sanzione a carico del datore di lavoro, ma di una punizione che risulterà molto onerosa nel caso in cui il lavoratore si rende protagonista con l’azienda di una finta collaborazione occasionale che dura da anni.
Ti potrebbe interessare leggere anche: