icurarsi la fedeltà del proprio dipendente anche alla cessazione del rapporto di lavoro ha un costo, che si esplica nell’indennità per il patto di non concorrenza, ma come deve essere calcolato questo compenso?
Sintesi patto di non concorrenza
Si è parlato nel precedente articolo del patto di non concorrenza tra datore di lavoro e lavoratori ed è stato sottolineato che questo ha dei limiti temporali e territoriali, che devono essere esplicati nell’atto scritto a pena di nullità del patto. Abbiamo sottolineato che il patto di non concorrenza deve essere retribuito, ora vedremo come si calcola il compenso. Infine, si è accennato nell’articolo precedente, che è possibile trovare QUI, che il compenso per il patto di non concorrenza deve essere congruo e che nel caso in cui sia irrisorio il patto stesso può essere dichiarato nullo, cioè come mai posto in essere. Ciò che invece manca è una precisa indicazione su come si deve calcolare l’indennità, elemento che non chiarisce l’articolo 2125 del codice civile, e per questo è necessario ricostruire delle regole tenendo in considerazione la giurisprudenza prodotta negli anni.
Elementi da valutare per il calcolo dell’indennità per il patto di non concorrenza
L’indennità per il patto di non concorrenza deve risultare da atto scritto, come d’altronde il patto stesso deve essere formulato per iscritto, il compenso deve essere proporzionale e deve tenere in considerazione le retribuzioni del lavoratore durante il periodo in cui il rapporto stesso era in vigore, l’estensione territoriale del divieto di prestare lavoro per aziende concorrenti, l’oggetto del divieto, nel senso che se il patto di non concorrenza prevede che il lavoratore debba semplicemente evitare determinate mansioni, ma che possa comunque stipulare un valido contratto di lavoro anche nello stesso settore, il compenso è ovviamente ridotto rispetto al caso in cui non possa esercitare alcun tipo di lavoro affine alla propria preparazione. Infine, deve tenere in considerazione la durata del patto di non concorrenza.
Il patto comunque non deve avere un contenuto tale da comprimere l’esplicarsi delle potenzialità del lavoratore.
Quelle indicate sono le linee generali, ma vediamo nel dettaglio qual è la linea adottata per evitare di incappare in una nullità dell’atto che può molto penalizzare il datore di lavoro. Solitamente si consiglia di non stipulare un atto che preveda un compenso per il patto di non concorrenza che abbia un valore inferiore al 30% della retribuzione se l’estensione del divieto è valida solo il Italia e il 50% nel caso in cui il divieto si estenda in tutta l’Unione Europea. Un caso particolare è quello di Flavio Cattaneo che ha ricevuto un compenso di 2,1 milioni di euro attraverso il patto di non concorrenza stipulato con TIM.
Cosa dice la giurisprudenza sull’indennità per il patto di non concorrenza 2021
Tra le pronunce della Corte di Cassazione merita una menzione l’ordinanza 5540 del 1° marzo 2021 in cui si sottolinea che il corrispettivo deve essere determinato o determinabile e allo stesso tempo deve essere congruo. Nel caso concreto, il datore di lavoro e il lavoratore nello stipulare il patto di non concorrenza avevano stabilito che il compenso sarebbe stato di 18.000 euro da corrispondere in 3 anni, ma nel caso di cessazione anticipata del rapporto, lo stesso sarebbe stato calcolato in base a quanto effettivamente maturato.
Il lavoratore impugna il patto di non concorrenza per indeterminatezza del compenso, il giudice di merito sposa la tesi del lavoratore, ma la Corte di Cassazione ribalta tale decisione e stabilisce che in realtà il patto di non concorrenza è autonomo rispetto al contratto di lavoro e vede l’applicazione dell’articolo 1346 del codice civile che richiede la determinabilità della prestazione oggetto del contratto e di fatto tale criterio era comunque rispettato nel contratto posto in essere dalle parti. Di conseguenza l’unico elemento da valutare, in quel determinato caso era la congruità tra le somme stabilite e il sacrificio del lavoratore stesso. La Corte di Cassazione ritiene, in quel determinato caso, i compensi comunque congrui.
Il principio inerente la congruità delle somme è unanimemente accettato dalla giurisprudenza. Il compenso per il patto di non concorrenza 2021 non deve essere sproporzionato rispetto al sacrificio richiesto in termini di limiti posti alla capacità reddituale del lavoratore e non deve essere iniquo.
La ratio del compenso per il patto di non concorrenza
Un’altra pronuncia importante è l’ordinanza 9790 della Corte di Cassazione del 26 maggio 2020. In essa si stabilisce che il patto di non concorrenza non ha natura risarcitoria, ma costituisce il corrispettivo di un obbligo di non facere (cioè non lavorare in settori in cui si può distrarre clientela al precedente datore di lavoro). Secondo i giudici di legittimità il fine del compenso è tutelare il datore di lavoro da qualsiasi “esportazione presso imprese concorrenti” del patrimonio immateriale dell’azienda tra cui c’è anche la clientela. La Corte ha ribadito che “il patto di non concorrenza, previsto dall’articolo 2125 c.c., può riguardare qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro”
Nella stessa ordinanza la Corte di Cassazione ha ribadito nuovamente che i compensi non devono essere simbolici, manifestamente iniqui, sproporzionati rispetto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue possibilità di guadagno.
Nel caso in oggetto le parti avevano pattuito in favore della lavoratrice del settore private banking un compenso di 7.500 euro annui per tre anni con divieto di svolgere esclusivamente attività di private banking, nella regione Lazio e con la stessa clientela e di conseguenza il divieto era limitato territorialmente e rispettava i limiti temporali e oggettivi. Inoltre secondo la Suprema Corte il divieto era strettamente correlato al danno che avrebbe ricevuto l’azienda. Di conseguenza il patto è ritenuto valido dalla Corte di Cassazione e la dipendente sanzionata perché non aveva rispettato i limiti previsti dal patto di non concorrenza.