La legge prevede una serie di tutele per le madri lavoratrici. Ma questo vale anche in caso di licenziamento? Approfondiremo l’argomento in questo articolo, dedicando una parte di esso alle dimissioni e al diritto al rientro.
Divieto di licenziamento della madre lavoratrice
Il datore di lavoro non può licenziare una sua lavoratrice a partire dall’inizio dello stato interessante e fino a quando il figlio compie il primo anno d’età. Lo ha stabilito il Decreto Legislativo n. 151 del 2001. Il divieto è correlato con lo stato oggettivo di gravidanza, quindi, anche nel caso in cui il datore di lavoro non sia al corrente di tale stato della lavoratrice.
Infatti, basta l’esibizione di un’idonea certificazione che dimostri come all’atto del licenziamento la lavoratrice fosse incinta, quindi, non licenziabile.
Il licenziamento della lavoratrice avvenuto in condizione oggettiva di gravidanza e puerperio è da ritenersi nullo. In tal caso, la stessa acquisisce il diritto al ripristino del rapporto di lavoro.
Un’altra situazione per cui è considerato nullo il licenziamento, ricorre nel caso di richiesta o fruizione del congedo parentale e in quello di malattia del figlio.
E’ fatto divieto di licenziamento anche del padre lavoratore, quando beneficia del congedo di paternità e per tutta la sua durata. Esso viene esteso fino a quando il bambino compie un anno d’età.
Altresì, il divieto di licenziamento sussiste anche in caso di affidamento e di adozione, fino a un anno dall’ingresso in famiglia del minore, e qualora si fruisca del congedo di maternità e di paternità.
Nel lasso di tempo in cui opera il divieto di licenziamento, il datore di lavoro non può sospendere la lavoratrice, eccezion fatta per sospensione dell’attività aziendale o del ramo d’azienda in cui la lavoratrice è impiegata. Altresì, non può essere posta in mobilità in conseguenza di un licenziamento collettivo, eccetto che sia avvenuto per chiusura dell’attività dell’azienda.
Quando è possibile licenziare una madre lavoratrice
Tuttavia, esistono dei casi in cui il licenziamento non è vietato, ecco quali:
- per colpa grave da parte della lavoratrice, che rappresenta “giusta causa” per la cessazione del rapporto di lavoro;
- per chiusura dell’attività aziendale in cui lavoratrice è impiegata;
per conclusione dell’attività lavorativa per cui la lavoratrice è stata assunta o per sopraggiunta cessazione del rapporto di lavoro dovuta alla scadenza del termine prefissato in sede contrattuale; - per esito negativo della prova, fatto salvo che ciò non avvenga per motivi discriminatori stabiliti dalla Legge n. 125 del 1991, articolo 4.
In caso di mancata sussistenza dei casi sopra indicati, il licenziamento effettuato nel periodo in cui vige il divieto è da considerarsi nullo e la lavoratrice beneficia delle tutele previste dai primi tre commi dell’articolo 18 della legge 300/1970, come modificati dalla legge 92/2012, in caso di assunzione antecedente il 7 marzo 2015.
In caso la lavoratrice sia stata assunta a partire dal 7 marzo 2015, beneficia delle tutele stabilite dall’articolo 2 del DL n. 23 del 2015.
Il contenuto delle suddette norme sono sostanzialmente uguali, in quanto, entrambe stabiliscono che la lavoratrice licenziata nel periodo di maternità o in conseguenza del matrimonio ha diritto alla reintegrazione piena. Ma in cosa consiste questo tipo di tutela? Scopriamolo qui di seguito:
- il datore di lavoro è tenuto a reintegrare la lavoratrice nel posto di lavoro;
- il datore di lavoro è obbligato a risarcire il danno subito dalla lavoratrice, per il periodo di retribuzione maturata tra il giorno del licenziamento e il giorno del reintegro. Nel caso la lavoratrice abbia incassato dei compensi derivanti da un altro lavoro, il relativo importo va sottratto. Ad ogni modo, l’entità del risarcimento deve corrispondere ad almeno cinque mensilità;
- il datore di lavoro deve versare i contributi di previdenza e di assistenza relativamente al periodo compreso tra il giorno del licenziamento e quello della reintegrazione del posto di lavoro;
- il cosiddetto diritto di opzione a favore della lavoratrice, ossia la possibilità per quest’ultima di scegliere, in sostituzione del reintegro, il pagamento di un’indennità pari a quindici mensilità.
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Dimissioni della madre lavoratrice
La lavoratrice incinta può rassegnare le dimissioni che, tuttavia, hanno bisogno di ricevere la convalida da parte degli Ispettori del Lavoro e del servizio di politiche sociali competente del territorio.
Le dimissioni devono essere convalidate dai suddetti servizi, anche nel caso in cui siano presentate dalla lavoratrice come dal lavoratore nei primi tre anni di vita del figlio, o nei primi tre anni di ingresso nel nucleo familiare del minore in affidamento o adottato. In assenza di tale convalida, l’efficacia della risoluzione del rapporto di lavoro è sospesa.
Qualora non venga accertata la volontà di richiesta di dimissioni tramite la suddetta convalida, esse sono da ritenersi nulle, a prescindere dalla conoscenza da parte del datore di lavoro dello stato di maternità della lavoratrice.
Per dimissioni volontarie presentate durante il periodo in cui vige il divieto di licenziamento, la lavoratrice ha diritto alle indennità previste da disposizioni di legge e contrattuali per il caso di licenziamento.
Inoltre, la legge in vigore stabilisce che la lavoratrice e il lavoratore che rassegnano le dimissioni nel periodo in questione non sono obbligati a dare il preavviso al datore di lavoro. Lo stesso vale per il lavoratore padre che ha beneficiato del congedo di paternità e nel caso di affidamento o adozione, entro un anno dall’accoglienza del minore nella famiglia.
Conservazione del posto di lavoro
Quando si conclude il periodo di congedo di maternità o di paternità, la lavoratrice o il lavoratore hanno diritto al rientro nel posto di lavoro e con la stessa mansione, o equivalente occupata prima dell’inizio della gravidanza, permanendovi fino al compimento di un anno d’età del bambino.