Di nuovo a tu per tu, dopo la prima parte di ieri, con Serena Basile che ci parla del progetto Standupificio.
C’è pudore da parte di chi ha perso un lavoro a chiedere un supporto?
Sì. Anche personalmente ho incontrato gente in cassa integrazione che riesce a dirlo solo dopo un mese, o persone che hanno perso il lavoro e che tutti i giorni si vestono ed escono di casa come se dovessero andare in ufficio. C’è una difficoltà ad accettare la perdita di un lavoro come ad accettare un lutto: in entrambi i casi si passa da una prima fase di intontimento, in cui non si accetta l’accaduto e questo non accettare è un aspetto che incide tantissimo. Pensa che una persona è venuta accompagnata allo Standupificio perché da sola non ce la faceva.
È più un problema interno alle persone o la paura di sentirsi giudicati?
Entrambe le cose. Intanto, è molto forte il discorso culturale. In Italia il lavoro è molto investito in termini di identità sociale e quindi di identità personale: io sono il lavoro che svolgo e nel momento in cui con questo non campo, non soffro solo a livello economico, ma anche a livello identitario mi si chiede una ridefinizione tale che rischio di ritrovarmi in ginocchio. Il tema del lavoro, in Italia, è molto sottovalutato per gli effetti che la perdita di quest’ultimo, se protratta nel tempo, può avere sulla salute delle persone e per l’impatto che questa perdita può avere a livello identitario. Le persone rischiano di sbriciolarsi, sono nude, specialmente se sul lavoro hanno investito tanto di sé.
Al momento operate solo su Milano?
Sì, ma non escludiamo di espanderci altrove nel momento in cui ci saranno terapeuti che condivideranno l’etica che sta dietro alla nostra iniziativa e che avranno voglia di portare l’esperienza nella loro regione.
Avete avuto contatti in questo senso?
Una collega dalla Sardegna, che conosceva l’associazione e ne aveva fatto parte, voleva lanciare lo Standupificio con un evento. Ora la sua iniziativa è però in stand by. Da Roma altri colleghi hanno chiesto del materiale per valutarlo e capire se possono portare sul loro territorio un’esperienza analoga. L’interesse c’è, così come la curiosità. È un progetto molto impegnativo, di cui stiamo mettendo a punto i percorsi e di cui stiamo cominciando anche a scrivere per poterlo meglio raccontare. Contiamo di allargarci.
Senza questa crisi non ci sarebbe stato lo Standupificio?
Lo Standupificio è il luogo in cui si ricomincia da sé e una persona potrebbe aver bisogno di ricominciare da sé per tanti casi della vita. Non saprei risponderti, magari lo avremmo inventato lo stesso per altri motivi. Può essere inteso anche come un luogo in cui dare alle persone delle risposte su un disagio sociale generalizzato e non necessariamente legato alla perdita di un lavoro. Di sicuro è nato studiando, con una esperienza di anni e parlando con le persone colpite dallo specifico disagio contro il quale opera.
Che tipologia di persone viene da voi?
Forse più donne, ma anche tanti uomini. Pochi giovani, la maggioranza delle persone che viene allo Standupificio è nella fascia 40-60 anni. E hanno professionalità varie, dall’impiegato alla libera professionista, al quadro della multinazionale al libero professionista ultra 60enne.
Chi viene da voi è già convinto di “rialzarsi” o siete voi a fargli prendere questa consapevolezza?
Molti ci scrivono per saperne di più e poi magari non si iscrivono. Ricordo una persona che, messa davanti a un percorso che la portava a diventare consapevole di un modo diverso di vedere le cose e alla possibilità di credere nuovamente in sé, ha risposto al terapeuta: “Voi siete pericolosi perché rischiate di illudere le persone”. La ribellione di chi rischia grosso se osa credere in se stesso. Non ho comunque avuto l’impressione di qualcuno che sia venuto con l’idea che lo aiutassimo a rimettersi in piedi. La gente viene sapendo che farà un percorso con dei terapeuti: quello che ne ricava, poi, è molto soggettivo. Dai questionari che abbiamo ricevuto emerge che le persone da noi si aspettano di recuperare gli strumenti contro la frustrazione, l’ansia e la rabbia.
In quanti siete a operare nello Standupificio?
In questo momento siamo cinque psicoterapeuti più una persona “jolly”, che è su un altro progetto dell’associazione e ci dà una mano quando abbiamo molte persone su cui lavorare. Facciamo un incontro al mese e ne abbiamo già fatti tre. Riprenderemo a settembre, poi ottobre e novembre e ripartiremo da gennaio 2017, anche se per il prossimo anno ancora non abbiamo le date fissate.