In questi giorni si fa un gran parlare della debolezza delle banche italiane, di quanto queste siano piene di derivati nocivi o di crediti deteriorati (denaro prestato che difficilmente riusciranno a riavere) e di quanto le sofferenze bancarie italiane siano sotto la lente dell’Europa.
La realtà racconta invece di problemi di un sistema bancario europeo che trova gli istituti di credito del Nord Europa ben più esposti al rischio derivati e, in prospettiva, più fragili di quelli italiani.
Lo ha evidenziato un’analisi dell’Ufficio studi della Cgia, che ha preso in esame gli ultimi dati forniti dall’Autorità Bancaria Europea (EBA) relativi a marzo del 2016, scoprendo che le banche finlandesi, del Regno Unito e della Germania hanno in pancia più del 20% del loro attivo in derivati, una quota che in Italia è di appena il 5,3%, meno della metà rispetto alla media dell’Unione Europea (12,9%).
La Cgia ricorda come i derivati siano strumenti finanziari complessi, il cui valore dipende dall’andamento di altre variabili, le cosiddette variabili sottostanti (prezzi di materie prime o di attività finanziarie ecc.). Questi strumenti finanziari derivati vengono utilizzati per proteggersi da scostamenti non voluti dei prezzi di mercato (come il prezzo del petrolio o i tassi di cambio tra valute), per fini speculativi cioè orientati a realizzare profitti scommettendo sull’evoluzione del prezzo dell’attività sottostante o per sfruttare differenze tra l’andamento del prezzo del derivato e di quello dell’attività sottostante.
Come ricorda Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio Studi della Cgia, i derivati “non sono prodotti esenti da rischi e con l’avvento del nuovo millennio le banche europee hanno sperimentato, a vari gradi, l’adozione di questi strumenti sia per gestire i rischi che con l’intento di generare ricavi extra-creditizi. Non è da escludere che i derivati possano rappresentare un rischio sistemico, specie in questa fase di turbolenza dei mercati finanziari; non è forse un caso che nel corso dell’ultimo anno le banche stesse hanno cercato di ridurre l’incidenza di questi prodotti nei loro bilanci”, passata, da marzo 2015 a marzo 2016, dal 15,2% al 12,9%.
Le rilevazioni fornite dall’Autorità Bancaria Europea sono relative a un campione di istituti di credito composto da oltre 150 banche europee, almeno 3 per ogni Paese, con un numero crescente a seconda della dimensione degli stati. Ebbene, dalla analisi della Cgia risulta che, sulla base del totale attivo delle banche italiane (pari a 2.323 miliardi di euro) e di quelle tedesche (4.060 miliardi di euro) è possibile stimare come l’ammontare dei derivati in capo alle banche italiane sia di almeno 123 miliardi di euro mentre per quelle tedesche di almeno 813 miliardi.
Se si analizza la composizione dell’attivo di banche tedesche e italiane si nota come l’elevata quota di derivati in capo alle banche tedesche è andato a scapito del credito. Se l’incidenza dei prestiti bancari tedeschi è comunque superiore alla metà del totale bilancio (56,2%), è evidente come questa quota sia molto più bassa della media per l’Ue (64,3%) e dell’Italia (67,8%).
Infatti, la Cgia sottolinea come gli ultimi risultati dell’Eba indichino come la redditività delle banche tedesche sia nettamente più bassa della media europea. Il ROE, ossia indicatore che misura il rapporto tra l’utile e il patrimonio netto, si è attestato ad appena il 2,6%, meno della metà di quello europeo, pari al 5,8%, e più basso di quello italiano, che ha toccato il 3,3%.
Un altro punto a sfavore delle banche tedesche è quello relativo al livello di crediti deteriorati, i cosiddetti “non performing loans”, NPL. Se infatti, rispetto al totale dei crediti lordi questo livello è basso (a marzo 2016 era il 3,1% sul totale dei crediti lordi contro il 16,6% dell’Italia), il motivo è perché lo in Germania lo Stato è intervenuto sugli NPL già nei primi anni della crisi finanziaria globale. Ecco perché il tasso di copertura degli NPL rimasti in capo alle banche tedesche, ovvero la loro capacità di coprire le eventuali perdite con risorse già accantonate, pari al 37,3%, è inferiore sia alla media europea (43,8%), sia alla media italiana (45,8%).