Tutto era nato da un caso che vedeva protagonista l’Amministrazione finanziaria, che aveva inviato un accertamento unificato, e quindi comprendente di Irpeg, Irap e Iva, ad una catena di supermercati, in seguito ad un’ispezione della Guardia di Finanza che aveva rilevato la mancata annotazione di trenta fatture prodotte in seguito a rimborsi di altrettanti buoni pasto utilizzati dai clienti.
La società aveva proposto ricorso, respinto in primo grado e accolto in appello, con la motivazione che gli scontrini riportavano le somme corrispondenti ai buoni pasto, con la dicitura “pagamenti vari”: pur senza fatture registrate, il contribuente non aveva evaso l’imposta né altri tributi sugli incassi corrispondenti al controvalore dei buoni, fatta eccezione per l’irregolarità formale dell’indicazione del numero di fatture emesse a fronte del rimborso ricevuto dalle imprese emittenti dei buoni.
La Cassazione, quindi, ha stabilito come legittimo il recupero d’imposta in caso di scontrini fiscali discordanti dalle annotazioni sugli acquisti con buoni pasto: nei registri dei commercianti al dettaglio deve figurare espressamente il valore all’incasso dei corrispettivi tramite l’accettazione di ticket di spesa usati per l’acquisto di merci.
A questo punto, l’Amministrazione si è rivolta al giudice di legittimità perché nel registro delle fatture emesse e dei corrispettivi non era annotato il controvalore dei buoni pasto.
La Cassazione ha accolto le motivazioni del Fisco poiché, non riportando l’esatto valore in denaro dei buoni, si configura l’esistenza di incassi non documentati e non contabilizzati.
La prova certa deriva dall’esame dei registri dei supermercati, mentre la Commissione del secondo grado si era basata semplicemente su indizi che facevano solo pensare all’esistenza di una corrispondenza specifica sugli scontrini fiscali di chiusura giornaliera di cassa.
Vera MORETTI