di Davide SCHIOPPA
Tra i mestieri artigiani che sono il vanto della piccola impresa italiana e che, tra il mordere della crisi e lo sviluppo di mercati sempre più globalizzati, soffrono più del lecito, c’è quello dell’orologiaio. Sono centinaia, in Italia, i piccoli riparatori che si dedicano a un lavoro fatto di tecnica e passione e che, oggi, si trovano in difficoltà di fronte alle politiche commerciali dei big mondiali dell’orologeria, che privilegiano sempre di più le riparazioni in house. Lo scorso mese l’Associazione Orafa Lombarda aveva lanciato una proposta di dialogo. Oggi torniamo sull’argomento con Mario Peserico, presidente di Assorologi.
Partiamo dai numeri: come va il mercato italiano dell’orologeria?
Non sono momenti facili ed è ovvio che il clima di sfiducia e di attesa che contagia il consumatore non può non riflettersi anche sul nostro mercato. Così come fatto lo scorso anno, mi sembra però giusto evidenziare che l’orologeria tutto sommato tiene molto meglio di altri comparti e riesce a difendere immagine, competitività ed attrattività. In ogni caso, nel 2012 nel nostro Paese sono stati venduti poco meno di 7 milioni di orologi da polso, per un valore di 1,14 miliardi di euro.
E sul fronte delle manifatture italiane, come vanno le cose?
In Italia esistono dei marchi più connotati sul mercato interno, che non esportano e di conseguenza sentono di più la difficoltà del momento. Il prodotto italiano è tale per chi lo conosce, lo è meno dal punto di vista del “made in”, per il quale la legislazione italiana è più lasca rispetto, per esempio, a quella Svizzera; per cui, chi è totalmente o quasi made in Italy, nella percezione del consumatore finale è, di fatto, uguale a chi importa e magari fa solo l’ultimo passaggio in Italia, fregiandosi ugualmente della dicitura made in Italy.
Soluzioni?
C’era stata la proposta di considerare il movimento italiano come condizione necessaria perché un orologio potesse essere considerato made in Italy, ma credo che ci saranno dei rallentamenti su questo fronte, stante la difficile situazione di mercato.
Parliamo della situazione dei laboratori di orologeria e dei riparatori…
Il settore patisce il momento come, in generale, lo patiscono le piccole botteghe artigianali. Gli orologiai lamentano il fatto che le grandi aziende non danno loro le parti di ricambio? Mi lasci dire, anche il fornaio si lamenta con la GDO perché fa il pane alla domenica. La tendenza è quella: i grandi gruppi si rendono autonomi come produzione, distribuzione e riparazione. Non credo sia criticabile il fatto che un marchio si organizzi autonomamente per le riparazioni o che si affidi per queste solo a chi gli dà certe garanzie in termini di preparazione e capacità.
Le politiche in questo senso le fanno dunque i big?
Se un marchio ha uno o più centri di assistenza autorizzati e professionalmente preparati o ha dei negozi che sono a loro volta attrezzati per le riparazioni, può anche non avere disponibilità di parti meccaniche per i riparatori che, per normativa europea, dovrebbero essere serviti dalla marca.
Anche in questo caso: soluzioni?
Trovo che sia un peccato che il mondo dei riparatori si perda e spero che ciò non accada ma, come associazione, abbiamo sempre sostenuto che i riparatori non sono organizzati, agiscono lamentando questa situazione ma senza fare nulla per rendersi organici ed elaborare proposte unitarie. Proporsi come alternativa vuol dire consorziarsi, creare un’associazione e darsi degli standard per cui chi entra nell’associazione ha certe capacità e garantisce un certo livello di servizio.
Che peso date, infine, alla formazione delle nuove leve di orologiai?
Negli ultimi 6-7 anni Assorologi ha contribuito a “ricostruire” la scuola di orologeria all’interno del Capac, il politecnico del commercio. La scuola aveva assunto col tempi una rilevanza sempre minore, anche perché dà spazio a una quindicina di allievi all’anno contro le centinaia delle altre scuole, nonostante costituisca un’eccellenza. Abbiamo riformato i programmi, ammodernato i laboratori con macchinari nuovi che le case hanno contribuito a far avere e gli allievi fanno degli stage nelle aziende di oltre un mese. La scuola ora dà spazio a 16 allievi per anno su due anni, ma le domande di iscrizione sono un centinaio, quasi sempre di ragazzi diplomati che vedono nella scuola una prospettiva, perché tutti i suoi diplomati trovano lavoro. Inoltre, la Regione Lombardia ha individuato nella scuola uno degli esempi di tutela delle arti e dei mestieri.