Donne imprenditrici: a quando una politica di conciliazione all’altezza?

di Vera MORETTI

La questione è spinosa, e quanto mai attuale: le donne italiane sono davvero messe in condizione di svolgere il loro duplice ruolo di madri e lavoratrici?
In un periodo, infatti, in cui il secondo stipendio non è un lusso ma una mera necessità, anche il desiderio di una donna di continuare a lavorare, nonostante i figli, non è un capriccio ma un modo per fronteggiare la crisi.

Di una cosa siamo certi: la donna imprenditrice che aspira a mantenere saldo il suo posto di lavoro, da sola non ce la fa, se a casa la aspettano figli e marito. E nemmeno le buone intenzioni, di cui, sappiamo, è lastricato il suo percorso, possono arrivare, poiché gli imprevisti, in una famiglia con bambini, sono all’ordine del giorno.
Ma, se la maggior parte delle mamme lavoratrici si avvale dell’aiuto di una rete di parenti-amici, in primis partner e nonni, un ruolo decisivo deve averlo anche il settore pubblico.

Le strutture, dunque, alle quali si rivolge una madre che diventa “in carriera” perché, ricoprendo un ruolo importante, non può permettersi una maternità prolungata, sono gli asili nido. Niente di male a lasciare i propri figli in questi luoghi, considerando che si tratta di posti sicuri dove i bambini vengono accuditi da personale qualificato e fidato, ma, si sa, una madre, molto più del padre, vive questo passaggio con difficoltà e sensi di colpa. Se poi si considerano i costi, elevati, dei nidi, anche quando sono pubblici, le problematiche da fronteggiare sono molteplici.

Per questo, molte Regioni ed enti locali stanno cercando di sensibilizzare la popolazione organizzando seminari ed incontri per eliminare definitivamente i pregiudizi nei confronti della donna, spiegando, dunque, la sua difficoltà nel conciliare lavoro e vita privata.
Spesso, infatti, una donna che ricopre cariche di rilievo in un’azienda è vista come il fumo negli occhi, perché si pensa che, presto o tardi, le sue assenze si faranno sentire. I bambini si ammalano, le scuole scioperano e chiudono durante le feste, e questo non deve pesare sull’azienda. Ma, invece di affidare certe cariche solo agli uomini, sarebbe meglio trovare soluzioni che permettano davvero questa conciliazione famiglia-ufficio.

A questo proposito, Ferruccio Dardanello, presidente di Unioncamere, sottolinea che le donne imprenditrici non sono sole e affidate al proprio destino ma “il sistema camerale sostiene l’universo dell’imprenditoria in rosa attraverso la rete dei comitati per l’imprenditoria femminile, presenti in tutte le province italiane. Oggi più che mai a queste imprenditrici occorre guardare con grande attenzione, sostenendole nel loro percorso di rafforzamento. Il loro impegno è una grande risorsa sulla quale il Paese può scommettere per riprendere, dopo la bufera di questi mesi, la via dello sviluppo“.

Come fare per metterci alla pari con gli altri Paesi d’Europa? Soprattutto nel Nord, esiste una politica fiscale in grado di supportare i periodi di “assenza” della titolare e anche un sistema infrastrutturale per la puericultura molto più consolidato e rodato di quello italiano.
Questi devono essere gli obiettivi da perseguire anche in Italia, come stabilito anche dalla Conferenza di Lisbona in merito all’occupazione femminile e ai servizi per l’infanzia.

Questi provvedimenti, qualora venissero messi in atto, potrebbero diventare un valido sostegno per tutte le aziende “in rosa” che in questi anni stanno sorgendo. Solo l’anno scorso, l’imprenditoria femminile ha registrato 9mila aziende in più rispetto al 2010, ma, benché questa sia una buona notizia, occorre che le donne imprenditrici siano supportate a dovere, per non far sì che questo incoraggiante “start-up” non sia seguito da una repentina cessazione di attività. Poiché, infatti, questo infelice trend è stato osservato in regioni come la Sicilia e la Calabria, la necessità di una politica di conciliazione risulta di importanza primaria.

A dimostrazione di ciò, arriva uno studio condotto da Confartigianato, dal quale emerge che l’Italia è tra i paesi che investono meno sui servizi di welfare correlati alla conciliazione.
Spendere l’1,3% del PIL, in questo caso non basta. La famiglia, e le donne, meritano una considerazione maggiore.