di Davide PASSONI
Che ogni crisi porti in sé anche delle opportunità non è solo un modo di dire. Se ne ha dimostrazione anche durante questi anni di magra, quando, a fronte di tanti pessimisti che si limitano a piangersi addosso e sperano in una rapida fine della recessione senza cercare idee per fronteggiarla, ci sono, per fortuna, persone sveglie e volenterose che si rimboccano le maniche e stabiliscono che, crisi o non crisi, il business deve crescere. O, almeno, deve provare a farlo.
Lo dimostra una recente indagine del Centro studi di Unioncamere, condotta su un campione di 5.200 imprese attive nate nel 2010 per le quali è possibile identificare il settore di appartenenza: un campione rappresentativo delle oltre 213mila “vere” nuove imprese iscritte nel corso dell’anno. Dalla ricerca emerge infatti che tra coloro che nel 2010 hanno deciso di fondare, da titolari o da soci di maggioranza, una nuova azienda, rischiando in prima persona e investendo proprie risorse economiche, più di un terzo (34%) lo ha fatto perché impossibilitato a trovare un impiego stabile o per lasciarsi alle spalle l’incertezza del precedente contesto occupazionale. Circa 1800 persone prematuramente estromesse dal mercato del lavoro, o che lo stesso mercato non ha voluto saperne di assorbire, hanno deciso di fare da sé, di mettere sul piatto la propria esperienza, professionalità o buona volontà e fare impresa.
C’è poi un 52% di persone che ha aperto un’attività facendo tesoro dell’esperienza acquisita, perché consapevole delle proprie capacità o convinto di avere una idea di business innovativa, perché insoddisfatto dell’attività svolta in precedenza o desideroso di affermarsi professionalmente e personalmente.
Una notizia buona, ma che dà lo spunto per fare alcune riflessioni su quello che, nel nostro Paese, è ancora oggi il concetto di cultura imprenditoriale. Se, infatti, quel 52% ha tutto sommato fondato la propria scelta sulla consapevolezza di ciò che significa fare impresa, vuoi per la propria storia professionale, vuoi per “fame” di affermazione, non possiamo essere certi del fatto che chi si è messo in proprio perché non aveva alternative lo abbia fatto con altrettanta consapevolezza o know-how da spendere. Una decisione che, se presa alla leggera come unica alternativa alla disoccupazione, potrebbe avere una duplice, pesante ricaduta; da una parte sul neoimprenditore il quale, incapace magari di differenziarsi sul mercato, senza una visione a lungo termine e orientato a un approccio del tipo “intanto incasso quattro soldi, mi sistemo e poi vediamo come sviluppare il business”, si ritroverebbe a breve con un lavoro sì, ma che non gli porta nulla, anzi, con l’aggravante di aver investito capitali propri senza un ritorno; dall’altro sul sistema delle imprese, per il quale ogni fallimento, piccolo o grande che sia, rappresenta un costo e quindi un ulteriore ostacolo sul cammino di una ripresa difficile.
Certo, idee di business vincenti e solide ci saranno sicuramente, così come ci saranno imprenditori svegli e capaci: non tutti i rappresentanti di quel 34% sono destinati a implodere, ci mancherebbe… Ma non possiamo escludere che una parte di loro lo farà. È il ciclo di vita delle imprese, si dirà; il mercato è giudice e carnefice, si dirà; e ancora si dirà che una percentuale di fallimenti è fisiologica, nulla di strano. Viene però da chiedersi se, con la prospettiva di dinamiche simili, il nostro sistema produttivo, fondato per il 95% su realtà medio piccole, abbia bisogno di imprenditori poco consapevoli in un momento in cui il mercato, dove ancora c’è, è già selettivo di suo ed è ancora più carogna con chi vi entra a cuor leggero.
La crisi morde, la crisi passerà. Attenzione però ad affrontarla con gli strumenti giusti, altrimenti le opportunità che porta con sé, anziché diventare occasioni per rialzare la testa, saranno ulteriori armi di cui disporrà per sparare ad alzo zero su un tessuto economico e produttivo già boccheggiante.