di Davide PASSONI
Dopo la prima parte dell’intervista a Laura Costato, ecco il prosieguo.
Ce la fate ad andare in Svizzera prima che accada quello che secondo lei sarà l’irreparabile?
No, siamo un’azienda piccola e pensare di fare un salto del genere in poco tempo non è credibile. Per questo parte il progetto di un consorzio etico gestionale, per il quale manderò degli inviti alle aziende che mi hanno scritto per informazioni e illustrarlo loro; un consorzio che non produce utili, serve solo a gestire tutto quello che è il back office ma rimarrà composto da soggetti giuridici separati.
Vantaggi?
Uno per tutti: se io vado a trattare una linea di credito per un pacchetto di aziende che muovono 10-15 milioni di fatturato, otterrò senz’altro delle condizioni più favorevoli che non se andasse la Costato Srl che ne muove 1. Il progetto nasce dall’esigenza di approcciare il sistema economico svizzero con una forza diversa che la piccola azienda non ha; per cui anche tutte quelle figure professionali che il piccolo imprenditore non può avere (marketing, controllo di gestione…) possono, con il consorzio, diventare organiche a esso.
Di quante aziende parliamo?
Quando parlo di consorzio parlo di 8-12 aziende, non di più; un progetto che può essere replicabile N volte ma di fatto abbastanza chiuso. spero di riuscire a farlo con aziende compatibili tra loro, in modo da poter creare una filiera: insomma, non lasciare nulla al caso, perché muoversi da qui va fatto con grande coscienza, quando si fa un salto del genere si rischia di chiudere delle porte, trovarsi di fronte a un cancello sbarrato e restare intrappolati nel mezzo. Quello che è certo è che in Italia non ci voglio restare, non solo per una questione professionale ma anche personale: non mi riconosco più nell’italiano né nella politica che lo governa. Non vedo proposte mirate: vedo una maggioranza che distoglie l’attenzione dai veri problemi creando scandali paralleli e un’opposizione che passa il tempo a criticare questi scandali. Per parte mia non si tratta di essere ottimisti o pessimisti, ma realisti.
Quindi le IMPRESECHERESISTONO… non resistono?
Io sono una parte che non resiste, perché non mi posso permettere di resistere. Per me resistere significa sopravvivere e trovare un modo di creare quella continuità aziendale che qui non è più possibile ottenere e garantire un futuro alla mia famiglia che fa questo lavoro da 50 anni, ai miei figli e ai miei dipendenti. Sopravvivere a queste condizioni significa mettere a rischio tutto quello che si è creato in 50 anni di lavoro; io non ho mai avuto paura delle banche, delle istituzioni o delle risposte che non ho avuto: il mio incubo è quello di dire alle mie persone di stare a casa. A queste condizioni, non volendo lasciarle a casa, io posso vivacchiare ancora due anni al massimo, il mio piano industriale è chiaro. Voglio fortemente andar via prima dell’irreparabile, che vedo molto vicino non solo per la mia azienda ma per l’intero sistema.
Quanti siete oggi in IMPRESECHERESISTONO?
Prima dell’uscita di questi servizi eravamo 1300 circa, ora siamo quasi 2000. La cosa triste è che non contiamo nulla; tra tutti muoviamo il doppio dei dipendenti che muove Fiat ma di noi non importa niente a nessuno.
E siete nati?
A maggio 2009.
Triste pensare che non siate riusciti a muovere nulla finora…
Nulla! Siamo partiti con delle richieste che al governo non sarebbero costate nulla se fatte limpidamente: la deducibilità Irap, l’Iva per cassa per aiutarci nella liquidità, la moratoria dei debiti fiscali, garantire la certezza dei pagamenti su media europea… Niente. E poi assistiamo a operazioni come quelle dello scudo fiscale, che fa pagare per capitali che, a mio avviso, non sono nemmeno rientrati: chi ha l’occhio lungo paga ma i capitali li lascia all’estero, non li riporta in Italia. Se io vado il banca a chiedere dei soldi devo pagare il 12% di interessi mentre queste persone che hanno evaso, hanno creato un danno al Paese, si rifinanziano pagando un 5% facendo concorrenza sleale alle aziende oneste. E se io non pago l’Iva, pago il 3% più le sanzioni il mese dopo? E’ un sistema che premia l’illegalità. E io tutti questi aiuti alle Pmi, ribadisco, non li ho visti, gli aiuti sventolati sono stati rivolti alle aziende con fatturato da 10 a 100 milioni di euro, non certo alle micro e piccole aziende che sono il 96% del tessuto economico italiano. Per me è diventato un malessere non tanto il lavorare in se stesso quanto il vivere in questo sistema.
Ha superato la fase del dispiacere di andarsene?
Io non ho dispiacere. Mio fratello e mia madre sì, io no. Facevo fatica ad accettare l’idea di trasferire l’azienda in altre realtà tipo quelle dei Paesi dell’Est, senza nulla togliere a questi ultimi, ma non mi vedo a vivere là con i miei tre bimbi piccoli. In Svizzera ci sono scuole ottime e servizi eccellenti, in svizzera mi hanno fatto sentire benvenuta. Mi hanno detto che gli svizzeri sono spocchiosi, che guardano gli italiani dall’alto in basso… ma a me non importa, io so che con le chiacchiere il pane in tavola non lo porto e qui di chiacchiere se ne sono fatte già fin troppe.
Qualcuno però avrà anche detto che la loro fiscalità da noi ce la sogniamo…
Perché il nostro sistema fiscale è profondamente ingiusto. Se io lavoro 12 ore al giorno per guadagnare 100 e 70 e rotti li devo dare allo Stato, in questo modo mi si toglie la possibilità di crescere. E poi mi si accusa di non fare innovazione. Con che soldi? Qui si vive nel controsenso, nell’aria fritta, nella chiacchiera. Tutte cose che non portano il pane in tavola. E purtroppo mi rendo conto che, sempre più, la politica è lo specchio dell’italiano medio: è anche per questo che me ne vado.
Reazioni alla sua scelta?
Da quando sono comparsa sulla stampa o in tv, nelle mail o sul nostro blog nessuno, e dico nessuno, mi ha mai rimproverato di andarmene. Mi aspettavo qualcuno che dicesse cose del tipo “hai guadagnato qui e ora te ne vai a goderti i soldi in Svizzera“, oppure “io non scappo perché sono italiano e amo l’Italia“… niente. E questo è sintomatico. Ma quando qualcuno mi scrive “ammiro il suo coraggio“, non ci siamo. Se ancora oggi il fatto di mettere la propria faccia per denunciare quello che non va è definito coraggio, vuol dire che alla base non c’è speranza.
Suo padre, che ha fondato l’azienda, sarebbe andato in Svizzera?
Per come lo conoscevo, no. Forse avrebbe delocalizzato all’Est, ma non avrebbe lasciato l’Italia.