di Davide PASSONI
Il 2010 è stato, per Atema, un anno di svolta. L’Associazione per il Temporary Management ha infatti dato un forte segnale al mercato con la qualificazione di alcuni suoi associati, di cui Infoiva ha dato conto negli scorsi mesi. Per capire meglio lo spirito e le finalità di questa qualificazione, abbiamo incontrato il vicepresidente di Atema, Franco Cavalli, che ha fatto il punto sui risultati della prima tornata e anticipato alcuni dei passi che l’associazione potrebbe intraprendere, con l’obiettivo di dare una sempre maggiore autorevolezza ai propri temporary manager.
Come è nata l’idea di qualificare i temporary manager di Atema?
Ci siamo resi conto che, volendo essere un associazione che rappresenta questo tipo di attività sul territorio nazionale, dovevamo avere capacità diaggregare i manager ma anche di parlare al mercato dicendo che esistiamo, ci siamo e siamo in grado di dare al mercato una indicazione di competenza e capacità nel campo dell’attività manageriale. Ci siamo posti il problema di dire: elaboriamo una qualificazione nostra o ci affidiamo a terzi per non essere autoreferenziali? E poi: su quali elementi elaboriamo questa qualificazione?
Risposta?
Vede, la maggior parte dei nostri soci è stata responsabile di funzione o executive nella propria carriera professionale; a un certo punto, queste persone si sono trovate nella condizione di dire “mi invento un mestiere diverso”. Quindi ci siamo chiesti: che cosa vogliamo trasmettere al mercato come profilo del temporary manager o del transition manger? Così abbiamo messo intorno a un tavolo persone che hanno una lunga esperienza di questo tipo di attività, che negli anni hanno venduto servizi alle aziende in questo campo e che provengono da diverse realtà; ciascuno di loro ha dato una visione di quello che cerca nel temporary manager per poterlo abbinare alle attività o alle richieste che riceve dal mercato e abbiamo stilato una graduatoria di queste competenze.
Che cosa è emerso?
Abbiamo basato tutto su un discorso di soft skills, evitando di entrare nella valutazione delle competenze specifiche del CV della persona: non siamo in grado di valutarle, è troppo complesso. Quello che per noi era importante capire era invece che non tutti i manager hanno le caratteristiche per poter operare in condizioni di temporary, perché il mercato ci ha indicato chiaramente che per fare questo esistono delle competenze specifiche; noi ne abbiamo individuate 17, le abbiamo riunite e poi ci siamo posti il problema di come misurarle con una metodologia standard e valida da un punto di vista valutativo ma anche autorevole agli occhi del mercato. Abbiamo lavorato così con l’università di Milano Bicocca e uno dei componenti del team che è Giorgio Del Mare, presidente e AD di Methodos, una grossa società di consulenza, ci ha consigliato di appoggiarci all’esperienza di Giuliano Sangiorgi, professore di psicologia del lavoro all’università di Cagliari. Sangiorgi ha così elaborato uno strumento riconosciuto e valido per misurare questi soft skills. Diamo dunque per scontate le competenze hard e ci concentriamo su quelle soft, perché non è detto che il bravo manager della grande industria sia in grado di lavorare nelle condizioni in cui si trova di solito un temporary manager.
Risultato?
A fronte di tutto questo è arrivato il primo gruppo di 10 persone certificate e poi il secondo di 12. Interessante è notare che il test cui noi sottoponiamo i manager valuta, oltre alle 17 competenze distintive, molti altri skills, poiché è uno strumento di tipo standard i cui risultati vanno molto più in là di quanto noi valutiamo: potrebbe esserci infatti la necessità di rivalutare più avanti le 17 competenze e capire se devono essere cambiate oppure no. Questa qualificazione, poi, è a tempo: vale tre anni, nell’arco del triennio la persona deve adempiere a determinati doveri per mantenere la qualifica e alla fine del triennio saranno riviste alcune valutazioni iniziali.
Quindi queste competenze si evolvono,non rimangono uguali a se stesse?
Lavorando sui soft skills diventa difficile abbinare la qualificazione a un piano di formazione per acquisirli, ma è anche vero che questi skills possono maturare nel tempo a seconda dell’uso che ciascuno ne fa, o essere stimolati e visti in funzione di determinate situazioni in cui un manager si trova a operare. Di fatto l’utilizzo ne migliora il grado di possesso, per cui come ulteriore step pensiamo: se dovessimo incontrare chi non ha questi skills, come possiamo fare per far sì che li apprenda?
Appunto, come?
Stiamo valutando che cosa organizzare in tal senso, che però non può essere un classico corso di formazione in aula. Ci stiamo ancora pensando perché è una cosa piuttosto complessa, per cui abbiamo voluto analizzare i risultati delle prime qualificazioni prima di decidere.
Che percentuale di associati Atema è per ora qualificata?
Nelle prime due tornate abbiamo coinvolto il 12% dei nostri soci, un buon primo campione da analizzare a 360 gradi: un lavoro che farà il prof. Sangiorgi che, sulla base dei risultati, ci indicherà la direzione migliore da prendere.
Come ha reagito il mercato alla vostra iniziativa?
La risposta che abbiamo è quella degli operatori che lavorano con noi e che trovano la cosa molto interessante, perché permette loro di avere uno screening dell’individuo piuttosto completo e attendibile. Sulla validità dell’iniziativa mi confrontavo recentemente con Manager Italia, che ha un sistema di valutazione molto complesso chiamato Youmanager, il quale comporta costi di gestione elevati per l’associazione e di sostegno per l’individuo valutato, per cui l’associazione guarda con interesse al nostro: si può fare qualcosa di molto valido e autorevole a costi contenuti. Non abbiamo la pretesa che il nostro strumento dica al mercato che chi ha questa qualificazione sa fare tutto, vogliamo invece dire che questo strumento fa sì che il mercato sappia che il manager ha gli “attrezzi” necessari per poter affrontare certi incarichi.
Coinvolgerete tutti i vostri associati?
Sì, ci piacerebbe avere tutti gli associati qualificati. Vero è che abbiamo associati che non operano più sul mercato per limiti di età ma sono rimasti fedeli all’associazione come spirito e come obiettivi, per cui potrebbero non essere interessati, però l’idea è che i soci la acquisiscano, visto che è su base volontaria. L’altro step a cui stiamo pensando, oltre alla formazione di cui parlavo prima, è di dare maggiore visibilità allo strumento dal punto di vista della conoscenza all’esterno, spingendolo in direzioni molto “marketing oriented”. Non possiamo pensare che sia conosciuto solo da noi e da quei 5 o 6 operatori che lavorano con noi. Abbiamo attivato lo strumento, i nostri soci devono vederlo come un mezzo che consente loro di avere maggiore visibilità sul mercato, ma se non diciamo al mercato che questa cosa esiste i soci non possono spendersi adeguatamente: è un circolo virtuoso che va innescato e che dobbiamo innescare noi di Atema, non possiamo demandarlo a terzi.