Secondo l’Agenzia delle Entrate, a fine marzo 2010, in Italia, risultavano aperte circa 10 milioni di Partite IVA, la stragrande maggioranza delle quali non faceva capo a società o imprese, ma a figure professionali autonome: un numero sicuramente impressionante, indice sì di vitalità del mercato del lavoro, ma anche dell’instabilità del medesimo.
Il fenomeno del boom delle partite Iva inizia negli Anni ’80, quando comincia la cosiddetta “ristrutturazione terzistica” dell’economia italiana: l’apertura della partita IVA, difatti, diviene lo strumento per divenire imprenditori di se stessi, è sufficientemente agile e snello e non richiede titoli di studio o eccessiva burocrazia.
In tutti questi anni, il popolo delle partite IVA è costantemente cresciuto, ma non ha mai avuto modo di organizzarsi con il solo risultato che, specialmente nel caso di giovani professionisti, vi sia esclusivamente una legislazione fiscale e non una di tutela. La partita IVA, infatti, solo in linea teorica consente di esercitare una professione in modo libero, autonomo ed indipendente, ma, in realtà, è più spesso lo uno degli strumenti, che il giovane avvocato, commercialista, architetto, o il professionista in generale è costretto ad utilizzare pur di entrare a far parte del mondo del lavoro.
Negli ultimi anni, difatti, si è sviluppata la prassi di utilizzare la partita Iva come strumento per flessibilizzare il mercato del lavoro: invece di assumere un dipendente che lavora part time o addirittura full time, gli si suggerisce di aprire la sua partita Iva; ma, lo strumento in parola gli garantisce al massimo e nel migliore dei casi un lavoro, ma non la tutela che da esso dovrebbe derivare.
E’ indicativo il fatto che molti avvocati e commercialisti chiedano, declassandosi, un posto da impiegato o cerchino comunque carriere alternative. La partita IVA non garantisce una sicurezza, non dà, ovviamente, diritto a ferie né malattie e neppure, almeno per ciò che concerne i giovani professionisti, a quel miraggio di libertà, autonomia ed indipendenza che è stato il motivo per cui si è scelta una professione.
Le statistiche dicono come oltre i due terzi di questi “lavoratori” oscilla tra i 30 e i 40 anni d’età ed un livello alto di istruzione e di professionalità. A ciò occorre aggiungere come non esistendo praticamente barriere di entrata, la concorrenza sia pressocchè incontrollata e sarebbe necessario riformare l’intero modello favorendo gli accorpamenti, prevedendo una legislazione ad hoc e limitando altresì, la cifra spropositata che sfiora i summenzionati 10 milioni.
L’introduzione del c.d. “forfettone” per i redditi sotto i 30mila euro e la possibilità di dividere il reddito tra moglie e marito ha aiutato questo giovane popolo in termini di fisco leggero, ma sono mezzi “placebo” che non accontentano né tutelano se non in minima parte.
Questa la realtà lavorativa per la stragrande maggioranza dei titolari di partite Iva in Italia. Nel 60% dei casi hanno un solo committente e lavorano in sede con ritmi e orari pressoché identici a quelli di un dipendente. Mediamente guadagnano mille euro al mese e restano a lungo nella famiglia d’origine. Professionisti di nome, quindi, ma dipendenti di fatto.
L’esistenza di tali figure professionali “ibride”, genera un ulteriore problema; e cioè il ricorso indiscriminato (a volte giustificato a volte no) alla Giustizia civile (ed in particolare al Tribunale del Lavoro), nella speranza, da parte del “lavoratore” / collaboratore ricorrente, che il Giudice voglia qualificare, di fatto, il rapporto come di lavoro dipendente, nonostante esso sia mascherato da “lavoro autonomo”. La circostanza di essere titolare di partita IVA non è infatti elemento risolutivo per conferire al soggetto titolare, la posizione di lavoratore autonomo, se poi nella realtà dei fatti, il rapporto si manifesta secondo i canoni tipici della subordinazione o della parasubordinazione, quali possono essere l’assoggettamento al potere gerarchico del “datore” di lavoro, il rispetto di orari prestabiliti di entrata e di uscita, ecc…
Avv. Matteo SANTINI | m.santini[at]infoiva.it | www.studiolegalesantini.com | Roma
È titolare dello Studio Legale Santini (sede di Roma). Il suo Studio è attualmente membro del Network LEGAL 500. || È iscritto come Curatore Fallimentare presso il Tribunale di Roma; Presidente Nazionale del Centro Studi e Ricerche sul Diritto della Famiglia e dei Minori; Membro dell’AGIT (associazione avvocati Giusconsumeristi); Consigliere Nazionale AGIT (associazione avvocati Giusconsumeristi); Responsabile per la Regione Lazio dell’Associazione Avvocati Cristiani; Membro dell’I.B.A. (International Bar Association); Membro della Commissione Osservatorio Giustizia dell’Ordine degli Avvocati di Roma; Segretario dell’Associazione degli Avvocati Romani; Conciliatore Societario abilitato ai sensi del Decreto Legislativo n. 5/2003; Direttore del “Notiziario Scientifico di Diritto di Famiglia”; Membro del Comitato Scientifico dell’ A.N.A.C. || Autore del Manuale sul trasferimento dell’Azienda edito dalla Giuffré (2006); Co-autore del Manuale sul Private Equity (2009 Edizione Le Fonti). || Docente di diritto e procedura penale al Corso in Scienze Psicologiche e Analisi delle Condotte Criminali (Federazione Polizia di Stato 2005). || Collabora in qualità di autore di pubblicazioni scientifiche con le seguenti riviste giuridiche: Diritto & Giustizia (Giuffré Editore); Corriere La Tribuna (Edizioni RCS); Notiziario Giuridico Telematico; Giustizia Oggi; Associazione Romana Studi Giuridici; Il Sole 24 Ore; Studium Fori; Filo Diritto; Erga Omnes; Iussit; Leggi Web; Diritto.net; Ius on Demand; Overlex; Altalex; Ergaomnes; Civile.it; Diritto in Rete; Diritto sul Web; Iusseek.