di Davide PASSONI
Qualche giorno fa è giunta a Infoiva una e-mail inviata da una professionista che ha voluto portare alla nostra attenzione la propria amara esperienza da “partitivista”. Chi ci segue sa che la missione della testata è quella di raccontare “un popolo fatto di piccoli imprenditori e liberi professionisti, che con spirito, tanta volontà, sacrificio e coraggio, gestiscono in maniera autonoma il proprio lavoro, costituendo la colonna portante del nostro sistema produttivo. Perché il Popolo delle Partite Iva è l’Italia che produce“. Offrire, insomma, ottimismo, per quanto nelle nostre capacità e per quanto la congiuntura in cui viviamo ce lo consente.
Tuttavia, non riteniamo corretto né utile chiudere gli occhi di fronte alle tante realtà e situazioni nelle quali chi vive (o sopravvive…) e lavora a partita Iva ha da spendere tutto fuorché l’ottimismo; perché il nostro sistema fiscale, il welfare, la contrattualistica professionale, il mondo bancario – per non parlare di quello sindacale – non lo tutelano e, anzi, sembrano farsi beffe di quello che, invece, è il suo patrimonio di maggior valore: lo spirito di imprenditorialità.
Poiché siamo stufi di veder considerati i partitivisti come dei figli di un dio minore, abbiamo deciso di pubblicare la lettera della nostra amareggiata lettrice: la trovate qui sotto. In più, abbiamo chiesto al nostro contributor, avvocato Matteo Santini, un commento dal punto di vista legale a questo tipo di realtà: eccolo.
Come è ovvio, abbiamo attribuito alla lettrice un nome di fantasia ed eliminato ogni riferimento spazio-temporale alla sua situazione per tutelarne l’anonimato. Anche perché, si chiami essa Luisa, Paola, Domitilla o Sofia, poco ci interessa: quello che vogliamo è portare alla luce una storia che è una come cento, mille altre, perché chi nel Palazzo ha a cuore la sorte della nostra economia e i diritti di contribuisce a svilupparla, si renda conto di che cosa significa oggi essere professionista. Omettiamo l’aggettivo “libero” per decenza e per rispetto nei confronti della nostra lettrice.
Salve,
mi chiamo Luisa e sono una “giovane architetto”… se a 34 anni si può ancora essere considerati giovani.
Vi scrivo per porre alla vostra attenzione la mia situazione professionale, anche io ahimè faccio parte del cosiddetto “popolo delle partita IVA”.
Ho cominciato a lavorare nel 2002 negli Studi Professionali e nel 2003 mi sono sentita dire: “Se vuoi continuare a lavorare per me, devi aprire la Partita Iva”. Allora ero abbastanza ignara dei sistemi fiscali, e soprattutto di diritti dei lavoratori e ho fatto quello che mi veniva richiesto, così come anche altri milioni di professionisti nel Paese. Mi sembrava normale, ricevere una retribuzione oraria… All’inizio mi sembrava normale anche non ricevere alcuna retribuzione durante il mese di agosto (lo studio era chiuso), durante le vacanze comandate, Natale, Pasqua e anche nel caso in cui per motivi di salute non fossi stata in grado di andare al lavoro.
Piano piano, le persone intorno a me, i miei amici coetanei, si laureavano e intraprendevano la loro carriera lavorativa… Chi negli ospedali come medici, chi in banca, altri ancora nel commercio o negli uffici pubblici e cominciavo a sentir parlare di “ferie”, di “malattia”, di “maternità” e addirittura di “tredicesima”!!!! E allora mi è cominciato a sorgere il dubbio che forse la mia situazione di giovane professionista collaboratrice di studi professionali, non era poi così normale.
Un giorno per curiosità ho contato le giornate lavorative e mi sono accorta che noi giovani professionisti, non solo non conosciamo il significato di tutte le condizioni sopraelencate, che dovrebbero appartenere alla categoria dei lavoratori, ma addirittura in un anno, lavorando tutti i giorni, almeno 8 ore al giorno, fatturiamo 10 mensilità piuttosto che 12… Niente male!!
Nello studio presso il quale presto la mia collaborazione (con obblighi di presenza giornaliera di 8 ore) si copre la fascia di età dai 28 ai 40 anni e le differenze retributive sono pressocchè minime: andiamo dai 12 euro/ora, ai quali si deve togliere la Ritenuta d’Acconto (20%) e il contributo Inarcassa (ente previdenziale a cui siamo obbligati a iscriverci e a versare i contributi a nostre spese) che si attesta intorno al 12%, sino ai 7 euro/ora dei neolaureati.
Purtroppo la nostra categoria di lavoratori (che vedete bene, non ha niente a che vedere con la figura del Libero Professionista), oggi non è affatto considerata e tutelata dagli enti di governo e sindacati. Si sente parlare sempre del problema del precariato e degli operai ma mai di noi finte partite Iva.
Oggi in Italia si ha ancora questa convinzione: Architetto/Avvocato/Ingegnere = libero professionista = categoria privilegiata. Ma questo è vero, in parte, solo se si fa “realmente” la libera professione. Magari fossimo davvero liberi professionisti, o meglio, magari potessimo avere la possibilità di esercitare la professione liberamente, intendendo con questo autonomamente e non alle “dipendenze” (ma solo in termini di obblighi) di altri liberi professionisti.
Qui si apre il capitolo dei bandi pubblici per affidamento di incarichi professionali, dove per partecipare devi avere già esperienza nella categoria a cui appartiene l’intervento in oggetto. Esempio, se si vuole partecipare al bando per la selezione dell’ampliamento di una scuola, si deve possedere già nel proprio curriculum un affidamento di incarico per l’ampliamento, ristrutturazione, o nuova edificazione di almeno una scuola… niente di più facile e ovvio!! La conseguenza di questa normativa nell’affidamento di lavori pubblici, ci sembra abbastanza evidente. Come giustamente ha detto recentemente Renzo Piano nel suo bell’intervento alla trasmissione Vieni via con me, in Italia oggi un architetto prima dei 50 anni non ha la possibilità di “fare” nulla. Ed è tristemente vero.
Proseguo con il racconto di situazioni e difficoltà, che ogni giorno ci dobbiamo trovare ad affrontare.
Un venerdì pomeriggio di qualche mese fa sono stata chiamata dai miei due capi nella loro stanza. Con facce diabolicamente meste e contrite mi dicevano che purtroppo la mole di lavoro era di molto diminuita per la loro Società, e che pertanto erano costretti (con il cuore in mano) a fare dei tagli e che la prima ero io, guarda caso, la professionista che al momento percepiva più di tutti all’interno dello studio e che, come potrete immaginare, non stava mai zitta di fronte a ingiustizie e comportamenti poco rispettosi nei nostri confronti. In poche parole, dopo 3 anni e mezzo di collaborazione, mi dicevano che nel giro di 2 settimane (avete capito bene, 2 settimane), sarei dovuta andare via. Sotto mia richiesta le 2 settimane sono diventate 4.
Immediatamente la mia preoccupazione più grande in quelle 4 settimane è stata provare a bloccare il mutuo per qualche mese, come previsto anche dalla Finanziaria di Tremonti. Certo, si può fare, mi hanno detto alla Banca. Mi deve portare il Contratto di Assunzione e la Lettera di Licenziamento. Ovvio. Peccato che io, come libera professionista a partita Iva non sappia neppure cosa sia un Contratto di Assunzione. Per buon cuore della Sig.ra responsabile dei mutui presso la Banca, abbiamo tentato altre strade, legate alle direttive interne della Banca stessa, e non a direttive “statali”, in quanto per quelle, non sussistevano le condizioni per me, per poterne usufruire. Mi è stato chiesto di ottenere una lettera dai miei capi, in cui si dichiarasse che io dal mese successivo non avrei più fornito collaborazione presso la loro Società.
Mi hanno fatto aspettare e penare 20 giorni prima di firmare questa lettera, modificandola e parlandone con il loro commercialista… riuscite a immaginare di cosa potessero avere paura?
Ma il bello deve venire.
In quello che arvebbe dovuto essere il mio ultimo giorno di lavoro, mi hanno chiamato nuovamente, dicendo che la situazione era cambiata (un altro professionista come me, era andato via) e loro avrebbero avuto piacere che io continuassi. Ovviamente ho dovuto dire di sì, ma potete ben immaginare con quale stato d’animo. E da allora sono ancora lì.
Nel frattempo una mia collega dello studio, è rimasta incinta per ben due volte, ma entrambe le volte con gravidanze difficili, nessuna delle due andate a buon fine. E’ dovuta stare a casa la prima volta un mese circa, e la seconda volta 3 mesi, senza percepire alcuna retribuzione secondo l’equivalenza no lavoro = no guadagno, che andrebbe bene se fossimo realmente liberi professionisti, non certo dipendenti quali siamo, costretti da una presenza quotidiana nello studio e un orario ben stabilito di 8 ore al giorno.
Lei ha ottenuto per fortuna, un piccolo risarcimento da Inarcassa, la Cassa di Previdenza di Ingegneri e Architetti, ma dopo la seconda volta, alla richiesta di voler ricominciare a lavorare, si è sentita rispondere che il lavoro è molto diminuito e che al momento non c’è posto per lei nello studio; peccato che nel frattempo, siano arrivate due giovani neo laureate, che sommando il loro stipendio, arrivano a percepire quanto lei da sola. Strana coincidenza anche questa no??
Ciò che oggi più mi fa arrovellare, è cercare di capire il perché del totale silenzio da parte dei politici, dei sindacati e anche dei giornalisti, su una situazione ogni giorno più grave e pesante. Unica testata di impatto pubblico che ha scritto un articolo, è stato il Venerdì di Repubblica, nel numero 1160 di Giugno 2010 “L’Italia delle partite iva”.
Vi ringrazio per la cortesia di avermi ascoltato in questo sfogo… Noi, giovani professionisti (ma ripetiamo, non più così giovani!!!!) siamo stanchi e molto preoccupati per il nostro futuro. Vorremmo che la questione venisse fuori con vigore e allarme, per far sì che in primis i giovani professionisti e non meno gli enti di governo, ne acquisiscano la consapevolezza. Io sono infatti convinta, che il mal costume che persiste oggi all’interno degli Studi Professionali, sia anche conseguenza dell’apatia di chi ci lavora, che da anni ha accettato passivamente le condizioni su descritte, tanto da far sì che oggi appaiano quasi normali.
Credo sia abbastanza evidente dalle mie parole, che il malcontento sta aumentando sempre più. Ci vediamo calpestati nei diritti fondamentali di una persona che lavora: nessuna tutela nella malattia, nessuna tutela nel mettere al mondo un bambino, nessuna tutela nell’essere allontanati da un giorno all’altro, siamo ben lontani dal rispetto del lavoro e dei diritti che ne dovrebbero seguire, che sono alla base di una società civile e progressista.
Certa di una vostra risposta e collaborazione, porgo i miei più cari saluti e rinnovo la speranza che grazie a voi e al vostro giornale, qualcosa possa cominciare a muoversi e a emergere.